Writing dreaming hoping

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Schiava del fato

venerdì 15 gennaio 2010

Schiava del Fato - 1° Capitolo


I caldi raggi del sole pomeridiano mi baciavano il volto, mentre inginocchiata con gli occhi chiusi rendevo omaggio alla dea del lago.
Sentii un sorriso sbocciare sulle mie labbra quando i miei sensi - amplificati dalla concentrazione - percepirono il rumore del vento che sinuoso ed elegante si muoveva tra gli alberi agitandone le foglie e portando con se i primi segni dell'autunno.
La grande e calda mano di mio padre si posò sulla mia spalla.
Il cuore comincio a battermi più velocemente e la pace che fino ad allora albergava dentro me, fece spazio a un sentimento di eccitazione e aspettativa che si trasmise al mio sguardo nel momento in cui aprii gli occhi, ritrovandomi a fissare il sorriso ogoglioso di un padre che ama la figlia infinitamente tanto.
E cosi dopo mesi passati in profonda meditazione e in contemplazione di quella natura della quale mi sentivo parte, era giunto il momento tanto atteso.
All'età di diciannove anni ero pronta a lasciare le spoglie della fanciullezza per entrare nell'età adulta, vestita di un nuovo manto e di una nuova consapevolezza che mi avrebbe finalmente resa donna.
Senza dire una parola ci facemmo strada tra la folla inginocchiata e ci avviammo insieme alle altre giovani donne, sul ponte che collegava la riva al centro della polla d'acqua intorno alla quale, tanti millenni prima, aveva preso vita la nostra civiltà.
Mi feci avanti camminando con passo sicuro e il mento fieramente alzato, felice che quel giorno fosse finalmente giunto anche per me.
L'acqua era ciò che di più sacro possedevamo. Rendevamo lei grazie una volta l'anno e nelle sue splendide e limpide acque venivamo consacrati a nuova vita.
Il dolce suono del flauto intessé intorno a noi una fitta e luminosa trama che conferì alla cerimonia un aura quasi divina e primordiale.
Il rito che stavamo per celebrare veniva compiuto nello stesso modo dai nostri avi. Nulla era cambiato poiché se cosi non fosse stato il legame che ci collegava alle nostre origini sarebbe stato spezzato e la magia che ci univa alla madre terra e ai nostri progenitori sarebbe svanita.
Il sacerdote cantò nella lingua antica accompagnato dalle note soavi del flauto che vibravano nell'aria con infinita grazia.
Mio padre, mi si accostò lasciandomi la mano e mormorando le parole dell'antico canto abbassò la tunica dalle mie spalle, accordando i suoi movimenti a quelli degli altri padri in una danza semplice quanto antica. Rimasi nuda lì davanti a lui, non più consapevole degli sguardi degli altri, lasciando che il vento e i capelli mi accarezzassero lievemente il corpo.
Inginocchiandosi vicino alla riva unì le mani a coppa e raccolse nei suoi palmi l'acqua che avrebbe benedetto il mio corpo, purificandolo.
Riversandola sul mio capo, prese poi il pugnale portogli da un accolito alla sua destra e si accinsè così ad applicare un piccola pressione con la punta, lì dove il cuore batteva al ritmo caldo e intenso della vita.

"Coloro che furono possano accompagnare te, che del cuor mio sei parte, nell'impervia vita, donando forza quando la debolezza di te farà suo giuoco e spargendo sole la dovè l'oscurità coprirà i passi tuoi. Quelle genti che già calpestarono il verde di questi prati, ora rivivono.
O' mia bella rosa, a te l'amor non verrà mai meno. Ascolta il padre tuoanche or che tu sei donna."



E finalmente sentii la lama che incideva teneramente la mia pelle, a suggellare un patto tanto antico da non potersi accontentare di niente di meno che del sangue, poiché in esso è contenuta la chiave più potente mai esistita, basando la sua forza su tutto ciò che di primordiale ancora rimane in noi.
Delle gocce cremisi stillarono dalla ferita. Le raccolsi con la punta delle dita e le portai alle labbra lanbendole con la lingua così come la tradizione voleva. Prendedone delle nuove mi diressi verso il centro dello spiazzo dove mi fu consegnata una pergamena.
Inginocchiandomi, aprii la pergamena e iniziai a tracciare con il mio stesso sangue un simbolo sacro: un bastone con due serpenti attorcigliati ad esso.
Arrotolando la pergamena la chiusi con un filo d'edera. Dopo che tutte le altre giovani donne ebbero fatto lo stesso ci recammo intorno alla fiaccola, e in un momento di intenso silenzio bruciammo le pergamene nello stesso istante.
Fu allora che il sacerdote ci raggiunse accompagnato ancora da quella musica cosi melodiosa.
Con un candito telo, asciugo la mia ferita e passo sopra di essa un unguento dal forte odore muschiato.

"Che ora tu sia libera di andare incontro a ciò che ti è stato riservato e che in ciò il fato sia sempre accanto a te propizio"



Una nuova tunica fu fatta scivolare sulle mie braccia alzate; mio padre mi bacio sulla fronte e prendendomi sotto braccio mi guidò verso la mia famiglia che mi aspettava, impaziente di potermi festeggiare.
Mia madre, Clizia, mi sorrise dolcemente, mentre mio fratello Glauco ridendo mi prese in braccio facendomi girare intondo come mi piaceva tanto da bambina.
"Benvenuta fra noi adulti piccoletta" disse stampandomi un sonoro bacio sulla guancia. "Eri bellissima, nessuna eguagliava il tuo splendore" dandogli una piccola strattonata al collo della sua tunica mi agitai per farmi posare a terra "Beh ora puoi anche farmi scendere non trovi?"
Fu allora che mi sentii strattonare leggermente la tunica, guardai in giu, mentre Glauco mi adagiava a terra, e vidi gli splendidi riccioli castani di Iride che mi porgeva un mazzolino di lavanda, dal quale si levava un delizioso profumo."Lavanda per te sorella, te ne ho portata un intero mazzolino cosicchè sarai sicura di trovare presto marito".
Il mio popolo utilizzava la lavanda come simbolo d'amor puro, cosicchè era divenuta presto usanza che tutte le giovani donne pronte ad abbandonare il nubilato se ne dovessero legare un piccolo ramoscello tra i capelli, proprio dietro l'orecchio, per farsi riconoscere e mettere in luce questa ricerca.
Presi delicatamente il mazzolino dalle sue manine di bimba sorridendole "Sei cosi impaziente di liberarti di me, Iride?" la presi un pò in giro. Spalancando i suoi dolci occhi verdi si affretto ad assicurarmi "Ma no sorella, è solo che.."
"..che ho bisogno di molto aiuto per trovare qualcuno" terminai per lei. " Ma no no tu non ne hai bisogno per quello, da qua" si riprese il mazzolino in mano, mettendo un broncio che la rendeva ancor più deliziosa " Lo tengo io allora".
Scoppiammo tutti a ridere. "Sto scherzando ho compreso il tuo gesto e te ne ringrazio ora dammelo, lo conserverò con cura" le carezzai i capelli, mentre lei con una linguaccia mi dava quello che era il mio regalo.
Fu in quest'atmosfera gioiosa che ci accingemmo a raggiungere gli altri cittadini al banchetto tenutosi in onore della festa del lagoe di noi giovani donne.
Avremmo mangiato, ballato e cantato fino a notte fonda, dando vita a uno dei più bei momenti folcloristici delle nostre tradizioni.
L'unico modo per omaggiare veramente la nostra dea protettrice, la dama del lago, era quello di gioire della vita insieme ai nostri cari.
Attendevo quella festa con ansia perché speravo di trovarvi Rolande e di farmi invitare a ballare. Prima di allora non ne avevo mai avuto il coraggio, ma ora che ero finalmente un adulta potevo sperare che mi guardasse con occhi diversi.
Arrivammo al banchetto che la luce del sole ancora splendeva su di noi, e ci mettemmo in fila per arrivare al nostro tavolo.
Una volta giunti, mio fratello sposto cavallerescamente la mia sedia per cedermi il posto d'onore accanto a nostro padre "Non farci l'abitudine sorella cara" disse mentre andava ad occupare quello che abitualmente era il mio posto "questa è una serata speciale e perciò sarò indulgente, ma ricordati che prendi sempre ordini da me" roteando gli occhi con finta frustrazione gli lanciai un sorriso malizioso "Beh spero di non rimanere seduta tutta la notte". Risi nel vedere la sua espressione scioccata, Dio era cosi adorabile mio fratello che ringraziavo il cielo di avermelo donato, tuttavia evitavo di fare certe manifestazioni affettuose perché a ventun anni non credo che Glauco amasse sentire me che lo definivo "adorabile" anche perché tra qualche tempo si sarebbe probabilmente sposato, sempre che Velesia accettasse la sua proposta ovviamente.
Guardai intorno a me per vedere se scorgevo l'immagine di Rolande in giro, di certo i suoi capelli neri si sarebbero notati a distanza, essendo inoltre, discretamente alto.
Non feci in tempo a terminare la mai occhiata perlustrativa che avvertii una piccola vibrazione sotto i piedi. Tesi i sensi al massimo, ma era come se non fosse successo nulla. Ero proprio una sciocca, nemmeno avevano cominciato a servire le bevande e io gia avevo i sensi alterati.
Mi girai verso mio padre, sorridendogli in quel modo che sapevo incantarlo " Padre sarei liete se mi riservaste la prima danza, quando i musicisti cominceranno a suonare" lui ridacchio compiaciuto "Beh se ti accontenti di danzare con un povero vecchio allora..."

TU TUM

Il silenzio calò improvvisamente sulla piazza. Questa volta non me l'ero immaginata la vibrazione, erano tamaburi, che in quel preciso momento cominciarono a tuonare minacciosi.

TA TUM TUM TUM TA TUM


Erano tamburi di guerra, qualcuno si stava avvicinando, e anche in fretta.
Un giovane guardiano di vedetta quella sera al cancello corse come se avesse il demonio stesso alle calcagna.
Al suo passaggio la gente si spostava automaticamente per fargli spazio e fu così che attraversando un tunnel umano giunse a recare una notizia al capo del consiglio che doveva essere se non infausta, di certo di grande importanza.
Il saggio ascoltò con attenzione quello che gli veniva sussurrato e nulla poteva essere letto dalla sua espressione che rimase sempre impassibile.
Il capo del consiglio si alzò così in piedi e con voce calma e potente nonostante l'età, tuonò
"State calmi!" fece una pausa per permettere a tutti di dedicare l'attenzione a lui. Un bambino cominciò a piangere mentre la madre nervosamente se lo portò al petto.
Ci voltammo tutti verso il Saggio con gli occhi spalancati, mio padre mi cinse le spalle mentre mia madre prese in braccio Iride che da brava bambina coraggiosa non emise un sol suono. Glauco invece si rivolse a mio padre nervoso ma con tono fermo "Padre col vostro consenso io.." " Si certo vai da Velesia".
Velocemente vidi mio fratello maggiore allontanarsi dal nostro tavolo mosso da un bisogno più grande di quello di proteggere la sua famiglia; era davvero innamorato della sua bella.
Il rullo di tamburi cominciava a farsi leggermente più vicino e sempre più costante, suonato da mani abili ed esperte, evidentemente abituate a questo tipo di incarichi.
"Che qualcuno chiuda i cancelli della città" i due giovani guardiani di turno si affrettarono a chiudere i cancelli, aiutati da dei volontari lì vicino per poter fare più in fretta.
"Bene signori, credo che tutti quanti conosciamo il significato di questi tamburi, perché questi sono tamburi di guerra." Dalla folla cominciò a serpeggiare un gran vociare fino a che qualcuno urlò "Stanno venendo ad invaderci!", "invaderci?" risposero in coro alcune voci.
Il panico si sprigiono in un solo istante, mi sentii spingere da dietro da tutte le persone che dietro di me cercavano di uscire dalla massa per dare libero sfogo alla loro paura.
"Silenzio!" tuonò la voce del saggio così potente da sovrastare il caos che si era venuto a creare.
"Hedemus,Themipatros,Lycs" chiamò il saggio "Abbiamo la possibilità di affrontare un assedio?"
nel silenzio si alzo la voce di Themipatros "No, saggio. Sono mille anni che non ci pervengono notizie di popoli circostanti, non abbiamo truppe, solo giovani guardiani che non possono affrontare un combattimento." l'atmosfera di fece ancora più carica di tensione e sentii mio padre stringermi leggermente la spalla, tentando di rassicurarmi.
La posizione della nostra città non era stata scelta in maniera tattica, tuttavia il caso volle che fu erta in una valle circondata dalla congiunzione di due piccole catene montuose e una vasta e splendida area boscosa, che trovava pausa tra un lago e l'altro.
In questa maniera eravamo rimasti perlo più isolati e ci eravamo quindi sviluppati come un popolo amante delle belle arti più che della guerra, come le nostre meravigliose piazze decorate con splendide statue potevano testimoniare; mio padre stesso era uno scultore.
L'ultima accademia militare fu chiusa circa 900 anni prima dato che di crescere guerrieri non ve ne era bisogno alcuno, prosperando alla nostra maniera ed espandendoci fino ad arrivare alla creazione di piccole comunità al di fuori della grande città.
"Cosa ci proponete allora" disse il saggio. Le sopraciglie aggrottate mentre con la mano sinistra reggeva il bastone e con la destra si accarezzava nervosamente la bianca barba.
"Fuggire signore".
Il suono di potenti cornamusa si erse forte dalla foresta, il marciare degli uomini era diventato percettibile.
Bambini intorno a me iniziarono a piangere. Le donne si stringevano ai loro uomini che cercavano di dimostrarsi coraggiosi.
"L'unica via di fuga oltre al cancello principale della parte nord è il sotterraneo sotto la cinta delle mura est" fece Hedemus " ma è possibile solo far passare tre persone alla volta, non ce la faremo mai a far passare tutti".
Allora fu il caos e vani furono i tentativi del consiglio di riportare un minimo di ordine.
Non avevamo mai conosciuto la realtà dell'assedio, solo leggende trasformate in racconti potevano darci una vaga idea di quello che ci aspettava, ma realisticamente parlando, non avevamo scampo.
Guardai mio padre negli occhi, e non vi scorsi ne paura ne timore.
"Padre è la fine?" lui mi afferrò il polso e cominciò a trascinarmi con forza e insistenza fuori da quella folla di migliaia di persone che avevano perso ogni parvenza di civiltà.
Mia madre ci venne vicina insieme a Iride "State tranquille bimbe mie ce la caveremo in un modo o nell'altro" ma dal tono della sua voce compresi che anche lei aveva paura. Tuttavia riponeva in mio padre una fiducia cieca e lo avrebbe seguito ovunque.
Avanzammo lentamente tra la folla, marciando nella direzione opposta alla calca. D'un tratto compresi quella che era l'intenzione di mio padre: farci uscire dal cancello principale.
Tentai così di farmi sentire sopra la confusione "Padre, padre" urlai più volte il suo nome e senza fermarsi si voltò a guardarmi " Padre non possiamo uscire dalla porta principale stanno per arrivare" e come per darmi ragione i suoni di tamburi e cornamuse si fecero via via sempre più forti. " si che possiamo, stanno andando tutti nell'uscita est, non ce la faranno mai a passare di li, l'unica nostra possibilità è tentare l'uscita principale".
Continuammo cosi a spingere, mentre freneticamente chiamavamo Glauco.
Tutto ad un tratto mi sentì travolgere dal peso di un uomo che mi cadde malamente addosso.
"Padre" urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, ma con mio orrore vidi che lui e mia madre erano stai spinti via dalla folla "Faolar" mia madre tra le lacrime chiamò il mio nome a gran voce, mentre mio padre cercava invano di tornare indietro a prendermi.
Li vidi spinti via, li vidi fino all'ultimo che lottavano per non abbandonarmi, e li vidi perdere quella battaglia.
Una donna mi calpesto una caviglia nel tentativo di fuggire, e urlai dal dolore.
Sentii all'improvviso una mano che mi prese per i capelli e mi aiutò a rialzarmi. "Glauco" gettai le braccia al collo di mio fratello che mi prese in braccio " andiamocene subito via di qui Faolar" mi strinsi a lui chiudendo gli occhi.
Lo sentii ansimare e grugnire mentre con spallate potenti si faceva spazio tra il fiume di persone. Dopo quella che sembro un eternità raggiungemmo finalmente il limitare della piazza.
Costeggiando il lago sacro e schivando le persone che correndo rischiavano di travolgerci. "Glauco, dov'è Velesia?" chiesi a mio fratello che mi rispose senza guardarmi "è con i genitori al sicuro". Non gli feci altre domande, continuai invece a guardare dritto a me cercando di ignorare la paura e le fitte che dalla caviglia si diffondevano attraverso tutta la gamba pulsando in maniera dolorosa, probabilmente dovevo essermela rotta.
Uno schianto eccheggio nel fragore che ci circondava e come un orda demoniaca, l'esercito invasore si riverso all'interno delle nostre mure, lasciando dietro di loro una scia di fiamme e morte che poteva essere respirata.
Da allora accadde tutto a rallentatore intorno a me, come se avessi eliminato ogni suono ed escluso le voci urlanti di tutte quelle persone che fino a poche ore prima si accingevano a festeggiare.
Grandi lance e torce infuocate si innalzavano dalla massa, mente spade si abbattevano su persone inermi, senza fare alcuna distinzione. Chi si trovava sulla loro traiettoria veniva infilzato, e squartato, fossero questi uomini, donne o bambini.
Urla, urla ovunque, fiumi di sangue iniziarono a scorrere nelle strade come se fosse acqua piovana.
La nostra bella città, la nostra splendida civiltà stava per essere cancellata.
Sentii Glauco ansimare, e posandomi a terra mi abbracciò strettamente "Ti voglio bene sorella" si stacco da me fissandomi negli occhi facendo scorrere una mano tra i miei capelli.
Dietro di lui vidi arrivare un guerriero dalla lunga barba e i capelli lunghi, brandendo una lancia. Lo vidi portare indietro il possente braccio e senza che avessi nemmeno il tempo di gridare, vidi gli occhi di mio fratello spalancarsi. Un rivolo di sangue prese a colargli verso il mento.
Con un ultimo suono gutturale - un suono che non potrò mai dimenticare - Glauco si accascio a terra e prima che l' ultimo scintillo di vita lo abbandonasse mi copri usando se stesso. Senti la sua vita sfuggirmi dalle mani e non potei che guardare il suo corpo immobile, rimanendo schiacchiata lì al suolo disperata e lacerata.
Persi contatto con la realtà ingoiata immediatamente dal dolore mentre il sangue di mio fratello colava ad imbrattarmi la tunica.
A riportarmi alla coscenza fu una mano che, spostando malamente il corpo di mio fratello da sopra di me mi tirò in piedi per i capelli.
Guardando in faccia il guerriero provai un odio sviscerato per quei barbari che mi avevano gettato in un incubo.
Gli sputai in faccia "Carogna, non sei altro che una bestia immonda" gli vomitai addosso con odio.
Un manrovescio arrivo a colpirmi potente sul volto. Immediatamente sentii il sapore metallico del sangue in bocca.
Non provai dolore, fu come se mi fossi di colpo insesibilizzata. Non avrei mai piegato la testa di fronte ad un essere del genere, avrei affrontato la morte non da persona pavida, ma vera donna.
I secondi passavano e io ero ancora in vita, quasi impaziente mi ritrovai a pensare anzi, a desiderare che la facesse finita presto, ma contrariamente alle mie aspettative il barbaro davanti a me tirò fuori una corda fatta di materiale rozzo, e mi lego i polsi dietro la schiena cosi stretti da non sentire più il sangue circolarmi attraverso le dita, mi fu legata anche una corda intorno al collo, e costretta a camminare in mezzo alla devastazione, non potei fare a meno di vedere i corpi di centinaia di persone giacere scompostamente sul terreno prive di vita. Continuando a camminare scorsi anche persone che conoscevo e appena chiudevo gli occhi per cercare di lasciare fuori quelle immagini dalla mia mente, sentivo una grossa mano che spintonandomi in avanti mi urlava di camminare.
La caviglia si era gonfiata ma non me importava nulla, e cosi tra uno spintone e l'altro raggiunsi il centro della piazza vicino alla polla d'acqua sacra.
Fu con orrore che la vidi piena di sangue; Il sacro lago contaminato con del sangue, non ci potevo credere, millenni di ossequiosa cura e venerazione erano stati cancellati con un colpo di spugna.
Mi girai rabiosa verso il primo guerriero che si trovava alla mia destra, ma non feci nemmeno in tempo a girare il viso che subito un pugno mi colpì tramortendomi immediatamente.
Rinvenni, e provai un vago senso di nausea quando cautamente mi rialzai a sedere. Le prime luci dell'alba cominciavano a rivelarsie il sole maestoso si erse potente ad illuminare la carneficina occultata dalle luci delle stelle.
Altre persone erano nelle mie stesse condizioni,tutti con lo sguardo fisso nel vuoto, stremati da un evento che non ci aveva permesso nemmeno di lottare.
In una notte ci era stato strappato tutto: dignità, affetti e persino un identità nella quale rispecchiarci.
Non so quanto tempo passò prima che ci disponessero in fila e cominciare a marciare.
So soltando che tra quell'unica manciata di persone rimaste non c'era nessuno dei miei cari.
Perché mi salvai? non so dirlo, ne so dire da chi presi la forza di andare avanti, so solo che tra spinte, lacrime e dolori vari, riuscivo sempre a mettere un piedre davanti all'altro.
Camminammo per quelli che mi sembrarono chilometri una volta usciti dalle mura della città, e quando il sole brillò alto nel cielo arivammo a un grosso gruppo di rozzi carri di legno, pronti ad apsettarci.
Completamente stremata, fui quasi grata di quella mano rude che mi strattono per quello che era rimasto della mia tunica e mi getto in malo modo nel carro.
Rimasi immobile per quasi tutto il tragitto, cercando di trovare la forza di turarmi le orecchie ed estromettere quella serie di gemiti flebili ma costanti.
Durante il lungo tragitto nel quale eravamo stati trascinati, fummo fatti vermare tre volte e in ognuna di queste occasioni degli avanzi di cibo furono gettati in malo modo in ogni carro.
In alcune persone l'istinto di sopravvivenza era cosi forte da spingerli a gettarsi su quelle poche cose come se fossero bestie affamate, ignorando il cattivo odore e il cattivo sapore. Altri invece rimasero immobili, cotinuando a fissare il vuoto, ignorando ogni cosa tentasse di trascinarli fuori dall' isolamento che gli impediva di provare una qualsiasi emozione.
Inizialmente divorai ciò che trovai, poi persi interesse per quel cibo. Ciò che non ci fu data fu l'acqua, ed era proprio questa che io bramavo con tutta me stessa.
Mi lascia cadere sul pavimento del carro, con lo sguardo rivolto verso il cielo, le labbra screpolate e la gola riarsa.
Desiderai di poter volare via, insieme a quelle nuvole, abbandonare il mio corpo, dimenticare ogni cosa, ogni dolore, ogni ossesione, scappare via di nuovo libera dalle catene che mi inprigionavano.
Fu allora che una piccola goccia d'acqua mi colpi il viso. Tesi i miei sensi al massimo delle mie possibilità, e quando ne sentii un altra chiusi gli occhi.
Lasciai che quella leggera pioggia lavasse il mio corpo aprendo la bocca e lasciando che si riempisse per poter bere.
L'acqua, la nostra preziosa e benedetta acqua era venuta per darci speranza, per farci capire che non era ancora tutto finito.
Non credevo davvero che per noi ci fosse salvezza, ma per qualche istane era stato bello farsi pervadere da una sensazione liberatoria.
Non so quantò durò il viaggio, sò soltanto che ad ogni fermata i corpi di chi non ce l'aveva fatta venivano scaraventati a terra da quei guerrieri senz'anima, lasciati senza sepoltura ne benedizione.
E proprio quando pensavo di aver raggiunto il fondo, entrammo nella città dei nostri invasori.
Superammo un grande ponte in legno, e dopo pochi minuti si cominciarono ad intravedere le prime abitazioni.
La voce possente del conduttore del mio carro ghigno diabolicamente "Benvenuti a casa, schiavi"










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