Writing dreaming hoping

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Schiava del fato

giovedì 6 gennaio 2011

Premio Sunshine Award 2010




Due giorni fa ho ricevuto il premio sunshine award 2010 da Sonia Caporali(LINK), una blogger che mi ha sorpresa con questa meravigliosa notizia. Che dire..è sempre bello essere apprezzati sopratutto da persone che lo fanno per il puro piacere di farlo e non per trarne qualche vantaggio.



Quando si viene premiati bisogna:

-Ringraziare coloro che ci hanno premiato.
-Scrivere un post per il premio.
-Passarlo a 12 blog che riteniamo meritevoli.
-Inserire il link di ciascuno dei blog che abbiamo scelto.
-Dirlo ai premiati.

Io ho scelto di premiare:


Outlander - La straniera

La mia biblioteca romantica

Juneross Blog

Moray Place

Isn't it romantic?

Books of Claire

Atellier dei libri

Miraphorando

Outlandish Icons

Il piacere della lettura

La fiamma del destino

Vivere,studiare e lavorare in Scozia



venerdì 9 aprile 2010

5° Capitolo - in scrittura

Doveva essere mattina quando fui strappata a quella serie di sogni che impedivano alla mia mente e al mio corpo di riposare completamente.
Sbattei le palpebre più volte cercando di mettere a fuoco, mentre la dolce luce d'inizio giornata riempiva allegramente quella capanna priva di comodità.
Girai la testa alla mia destra li dove era posizionato il bracere ormai spento mentre stancamente mi passai una mano tra i capelli incrostati di sudiciume.
Per la prima volta dopo molto tempo desiderai potermi lavare almeno un poco, poiché quello delle abluzioni era un rituale presente nella mia vita quotidianamente fin da quando avevo memoria.
Provai a mettermi a sedere lentamente, ma un giramento di testa me lo impedì. Tornai così a sdraiarmi e a guardare intorno a me sconsolata, alla ricerca di un po d'acqua.
Quasi sovrappensiero spostai la pesante massa di capelli da una parte e nel farlo sfiorai la pelle delicata alla base del collo, lì dove era stato impresso a fuoco un marchio, simbolo della mia umiliazione e sottomissione. Bruciava come le altre ferite sul resto del mio corpo martoriato, ma stavo guarendo lo potevo percepire ad ogni lieve movimento.
Il mio corpo mi stava dicendo che ce l'avrebbe fatta, che nonostante i segni indelebili disegnati sulla mia pelle, sarebbe rinato e tornato come nuovo: sano e pronto a servirmi. Ma la mia anima poteva guarire completamente? sarei potuta davvero andare avanti?
Giorni addietro avevo sognato Glauco, apparsomi nel tentativo di darmi nuovamente speranza.
Finché avrei avuto la forza di compiere un ultimo respiro non avrei mai posto fine a quel dono chiamato vita, anche se in quel momento la mia era una strada lastricata di sofferenza.

D'un tratto pensai a quell'uomo, Ruari, che fino ad allora mi aveva aiutata... chissà dove era.Durante la notte mi ero svegliata in cerca di acqua e l'avevo trovato lì nella stanza, seduto con la schiena contro la parete, gli occhi chiusi i palmi poggiati sul pavimento.
Ora tuttavia non era presente nella stanza e non potei che rallegrarmene, anche se era stato un aiutante discreto e competente.
Ne approfittai per osservare ciò che avevo intorno a me. Quella nella quale mi trovavo era una capanna spoglia composta da una sola camera. Nella zona alla mia sinistra si trovava una catasta di pelli brunastre già conciate e una tavolo pieno di quelli che dovevano essere strumenti per intagliare il legno gettati malamente insieme a dei grandi e rozzi coltelli conficcati nel legno stesso del tavolo. Fasce di tessuto pulite e inutilizzate erano ordinatamente piegate sulla mensola accanto al mio letto vicino a dei piccoli vasi in terracotta contenenti degli unguenti, il che provocava un certo contrasto con il disordine che regnava alla mia sinistra.
Notai in quel momento che una delle fasciature sul mio braccio si stava inesorabilmente sciogliendo, provai a riavvolgerla inutilmente e così facendo scorsi la pelle violacea al disotto di esse, la toccai delicatamente mentre una smorfia distorceva i miei lineamenti.
Allora decisi di togliere completamente la fasciatura.
Annusai uno ad uno il contenuto di ogni barattolino disposto sulla mensola fino a che trovai quello che faceva al caso mio. Presi l'unguento e lo spalmai abbondantemente sulle ferite concentrata e decisa, ignorando le fitte di dolore. Passata dopo passata una piacevole sensazione di sollievo dato dalla freschezza della crema mi invase.
Fu mentre cercai di riavvolgere la fasciatura con una mano sola che sentii dei passi in lontananza farsi sempre più vicini.
Il cuore prese a martellarmi sempre più veloce e una fitta di terrore mi invase inaspettata. La porta si spalancò lasciando entrare oltre ad un fascio di luce molto intensa,una donna dalla corporatura bassa e dalla fisicità morbida.
La voce era cinguettante quando mi diede il buongiorno ignorando il fatto che mi ero praticamente nascosta sotto il letto, dimentica delle mie condizioni.
"Buongiorno piccolina" la donna mi sorrise apertamente mentre cominciava a riordinare la stanza. "Oggi è una splendida giornata è un peccato che tu non possa ancora godertela. Ma stai tranquilla ho detto a quello scellerato di mio figlio di passare qui più tardi cosi vedremo di farti prendere una boccata d'aria fresca. Mia madre diceva sempre che non c'e niente di meglio per aiutare una ferita a guarire che essere baciata a lungo dal nostro benedetto sole." L'accento della donna era strano, duro e forte e mancava della melodiosa cadenza del linguaggio della mia popolazione, tuttavia il fatto stesso di poterla comprendere rendeva il tutto più straordinario a modo suo. I nostri erano popoli così diversi e così lontani fra loro eppure c'era qualcosa che ci univa, solo che quel qualcosa appariva ai miei occhi come un legame spaventoso.
Rimasi in silenzio a lungo a sentire quella donna dai modi gentili parlare, scrutando ogni suo movimento senza mai distogliere l'attenzione. Seguivo con lo sguardo ogni suo passo, fino a che non ritenni che non era un pericolo.
Sempre diffidente mi spostai nella mia postazione iniziale e solo dopo qualche minuto trovai il coraggio di porle qualche timida domanda.
"Dove mi trovo?" la guardai di sottecchi mentre si fermava a rispondermi stupita"Non sai ancora dove ti trovi?"
Scossi la testa in segno di diniego e allora lei sospiro e si sedette accanto a me sul letto, provocando una reazione tutt'altro che fiduciosa da parte mia.
Mi strinsi le coperte al petto e sbarrai gli occhi ma la donna sembrò non farci caso "Sei a Caledonia tesoro, conosci questo nome?" sempre diffidente scossi la testa.
Dopo un attimo nel quale era sceso il silenzio la donna fece il primo passo nei miei confronti.
"Come ti chiami?" era la prima domanda che mi veniva rivolta dall'inizio di quell'incubo, la prima domanda che mi identificava come essere umano e non come una bestia, come se sapere il mio nome avesse importanza.
Fu così che risposi con un sussurro"Faolar"
"Il mio nome è Mùirne" mi fisso a lungo dolcemente mentre rimanevo lì ad assaporare quella sensazione dolce amara provocata dal sentir pronunciare il mio nome"Sei stata fortunata Faolar, qui sei al sicuro"
Un moto di sofferenza e rassegnazione mi spinsero a pronunciare più parole di quante ne avessi mai dette fino ad allora
"Da quando la mia vita è stata distrutta niente è stato più lo stesso, io e il mio popolo abbiamo ricevuto solo disprezzo, derisione e violenza. Guarda!" scostai le coperte per lasciarle vedere il mio corpo ancora gonfio dalle ferite e percosse "Guarda come mi ha ridotto la tua gente.Non c'è stata misericordia ne per me ne per tutte le altre povere anime giunte in questo posto." tornai a ricoprirmi "Qui non sono al sicuro, qui mi aspetta solo sofferenza, non esiste posto sicuro per chi come me è schiava del fato".
Mùirne accennò un movimento nei miei confronti ma si fermo quando vide la mia reazione istintiva "Non voglio fingere dicendo che comprendo il tuo dolore perché non è così.Niente giustifica ciò che vi è stato fatto ma tu ora sei qui a lottare per la tua vita, quindi ti prego concedimi di curare le tue ferite."
Titubai un istante, ma poi lentamente mi stesi completamente sul letto, togliendo le coperte in un silenzioso invito a procedere. Fu con delicatezza che Mùirne tolse le bende una ad una.
Non capivo perché lo stesse facendo, perché si stesse prendendo cura di me, che ero solo una schiava senza diritti. Sarei stata solo un peso, eppure nonostante la mia diffidenza, nonostante il mio immenso dolore lei era ancora lì a curarmi, pronta a sopportare tutto ciò che avrei potuto riversarle addosso.
Potevo davvero credere che dopo tutto quello che avevo passato finalmente ci fosse stato in serbo per me un po' della fortuna che mi avrebbe portata alla pace? Non lo sapevo, era troppo presto per dare una risposta ai miei dilemmi, solo vivendo avrei potuto scoprire il futuro, vedere se davvero avevo trovato qualcuno nel quale riporre la mia fiducia.
Mentre Mùirne riavvolgeva lentamente le bende intorno alla gamba destra mi disse "Non temerlo Faolar, sarà la tua salvezza"
Non risposi a quell'affermazione, era molto più facile ignorare quanto detto, non illudermi, non cercare di provare fiducia in un altro essere umano. Ero spaventata da tutto quanto, dal luogo in cui mi trovavo e dal tocco delle mani di quelle persone sulla mia pelle.
Non volevo fidarmi, non potevo fidarmi. Tutto il mio essere bramava pace e solitudine.
Guardai Mùirne ripulirsi le mani sul grembiule bianco che aveva legato intorno alla vita lanciandomi un ultimo sorriso prima di uscire dalla stanza.


martedì 2 marzo 2010

Schiava del fato - 4° capitolo


La mia mente era li che vagava sondando ogni minimo recesso del mio subconscio. Potevo percepire il corpo ondeggiare come sospeso nel vuoto provocandomi una sensazione davvero peculiare.
Provai ad aprire gli occhi, ma era come se niente rispondesse più ai miei comandi: insubordinazione certo. Il mio corpo si stava ribellando contro di me, non contento del modo in cui lo avevo trattato nelle ultime settimane.
Non che mi importasse un granchè in realtà, no di certo; quella del pensare era un operazione troppo faticosa; piuttosto, meglio rimanere cosi, immobile, lontana dal dolore, lontana dalla realtà, lontana da tutto.
Se avessi potuto avrei dimenticato ogni cosa, avrei abbandonato ogni ricordo, ogni luogo, ogni volto o risata, come avrei felicimente dimenticato ogni altra cosa della mia vita.
Certo non era una cosa molto coraggiosa, ma ero stanca, così dannatamente stanca, da non voler più avere a che fare con niente che mi ricordasse che un tempo ero stata viva e felice.
Tutto quello che desideravo ora era restare lì nel bel mezzo del nulla, priva di coscienza, continuando a tenere strenuamente gli occhi chiusi al mondo e a me stessa.
In quel preciso momento non sapevo dove mi trovavo, ne cosa mi stesse succedendo, non avevo la forza per cercare anche solo di capire e dare un senso a tutto e del resto, come detto prima, non ne avevo nemmeno la volontà.
L'unica cosa che mi dava la certezza di essere viva, e non in procinto di intraprendere il lungo viaggio che porta al regno degli Dei,era il costante dolore provocanto dall'alzarsi e dall'abbassarsi del mio petto.
Ogni boccata era un ricordo bruciante della vita che ancora scorreva in me, il resto erano solo un insieme ingarbugliato di sensazioni non troppo importanti.
Dopo un po credo di aver perso conoscenza, sentendo l'oblio chiudersi sopra di me pronto ad ingoiarmi e ad allontanarmi anche da quel piccolo barlume di razionalità rimastomi.
Dietro di esso restò il vuoto, il nulla. Solo la mia vita che stillava in piccole gocce ricandendo poi una ad una lì dove regnava il buio, e dove si nasconde tutto il peggio che alberga in ogni essere umano.
Non so quanto tempo passai in quell'luogo che è chiamato NULLA, so solo che il dondolio iniziale fu sostituito da un tremolio instabile, sostituito a sua volta da un altre benedetto momento di pace e oscurita.
Solo una volta riuscii ad aprire gli occhi, e ciò che vidi fu un largo petto sul quale era pogiata la mia guancia.
Tenni lo sguardo fisso di fronte a me per pochi attimi, poi l'incoscienza torno ad inghiottirmi nuovamente, per quella che non sarebbe stata l'ultima volta.

La leggera brezza mi sfiorò delicatamente il vestito, mentre con il volto rivolto al sole muovevo languidamente un piede,immerso nell'acqua del lago a poco più di due ore di cammino da Ellade.
Il cinguettio degli uccelli faceva da sottofondo a quel momento di pace così perfetto. Niente avrebbe potuto rovinarlo.
Ripensai alla festa e a come le braccia di Rolande mi avevano stretta a se durante la danza. Sentii il sangue salirmi a colorare le guance senza bisogno di specchiarmi nell'acqua.
Con un sospiro deliziato sollevai il piede e mi lasciai cadere sull'erba in fiore sorridendo speranzosa, pregustando gia l'incontro successivo che di certo sarebbe avvenuto quella sera stessa.
"Sorella"
Spalancai gli occhi al suono della voce di mio fratello. "Glauco sei tu"
"Sorella" il tono tormentato della voce mi spinse ad alzarmi e a voltarmi.
Appena posai gli occhi sulla sua figura insanguinata lanciai un urlo e corsi verso di lui. "Glauco mio Dio sei ferito"
Mi prese le spalle e le strinse in una morsa "Torna indietro e combatti"
"Non capisco cosa vuoi dire..."
"Combatti!"
Lacrime brucianti scesero sulle mie guancie senza saperne il motivo. Le asciugai e una volta guardatami i palmi li vidi insanguinati. Tutto ad un tratto mi sentii strana e dolorante.
"Glaudo non posso. Non posso farlo" Scossi la testa piangendo e sporcandomi ancora di più.
"Si che puoi, devi! per tutti noi Faolar, fallo per noi che ti amiamo,vai avanti, affronta le avversità a testa alta, e vivi! fallo per amor nostro. Vivi per noi Faolar. Non fuggire dalla realtà, non venire più qui. Affronta tutto e vivi!" Le sue mani mantennero la presa, mentre i suoi occhi erano fissi nei miei come due fuochi ardenti che cercavano di infondermi la sua forza. E allora ricordai tutto quanto. L'invasione, e l'uccisione di mio fratello sotto i miei stessi occhi, sentire la sua vita scivolare via proprio sopra di me, riecchegiando nel silenzio che si era venuto a formare nel mio cuore.
"Mio Dio!" singhiozzai "Mio Dio Glauco" lo abbraccia, stringedolo a me con tutta la forza possibile "Non posso farcela, è cosi difficile, non c'è più amore per me, ne un luogo da chiamare casa. Come posso affrontare tutto questo? c'è solo sofferenza,dolore e solitudine."
Mi stacco da se, accarezzandomi la guancia con la mano. "Mi chiedi come puoi proprio tu che sei sempre stata così coragiosa? ti ricordi quella volta quando avevi sette anni, quando sei rimasta imprigionata in quella buca nella foresta per più di quattro ore?" Anuii con la testa, cercando di pulirmi il viso "Si mi ricordo ma non è niente in confronto a quello che mi sta accadendo ora" Sorrise ravvivandomi una ciocca dietro l'orecchio "Certo lo so" fece una breve pausa prima di riprendere " ma eri una bambina, e nonostante tutto quando ti abbiamo trovata, ci hai salutato, tranquilla come se fossi stata tutto il tempo a giocare con le bambole, e non hai fiatato nemmeno quando ti abbiamo rimesso a posto il braccio." si stacco da me "Eri coraggiosa fin da allora, e forte. Quello era solo la promessa della splendida donna che promettevi di diventare" rimasi in silenzio cercando di assorbire le sue parole. "Ora sei quella donna,guarisci, e cerca di fare della tua vita ciò che sarebbe sempre potuta essere"
Presi la sua veste nelle mie mani strattonandolo debolmente "Ma tu? come potrai tu? forse se non fossi tornato indietro a cercarmi ci saresti tu al posto mio, ci saresti tu qui a lottare" mi stacco piano le mani stringendomele poi nelle sue.
"Forse. Magari sarei ancora vivo e magari, solo magari, sarei stato al posto tuo. Ma sai una cosa sorellina?" scossi la testa. "Non rinnego niente di ciò che ho fatto, ti ho amata e sono stato felice di sacrificare la mia vita per permetterti di avere una possibilità di farcela." lo guardai mentre lasciandomi le mani piano piano si allontanava, vestendo quella tunica macchiata di sangue che era li in ricordo delle ferite mortali che aveva ricevuto.
"Vivi, Faolar, e noi vivremo con te".
"Addio...fratello".


"Ah!" mi alzai a sedere di scatto mentre una scarica di dolore si diffonteva in tutto il corpo.
Una mano gentile si posò sul mio petto spingendomi giù.
Fissai lo sconosciuto con occhi spalancati, mentre questi immergeva un panno in un catino vicino al letto,strizzandolo poi con entrambe le mani.
Quando tornò ad avvicinarsi con la pezza tentai debolmente di allontarmi, impaurita dalle intenzioni dell'uomo.
Guardando i miei patetici tentavi lo sconosciuto mi blocco delicatamente un braccio costringendomi cosi a fermarmi.
"So che è inutile chiederti di non avere paura" abbassò lo sguardo sul mio corpo, seguendo così il movimento della sua stessa mano mentre con la pezza mi ripuliva le ferite sulle quali si erano formate delle incrostazioni. "Ma voglio comunque farti sapere che non ho intenzione di farti del male".
Mentre continuava il suo lavoro di pulitura ripresi completa coscienza del mio corpo, e con essa mi riappropriai del dolore che mi invase potente, lasciandomi febbrile e semi incosciente.
Volevo allontanarmi da quel letto, allontarmi da lì, ma non potevo. Ero in balia di quello sconosciuto, nuda e ferita, completamente alla sua mercè.
Lo guardai muoversi lentamente, mentre continuava imperterrito il suo lavoro, Ignorando il mio sguardo impaurito, comportandosi come se tutto fosse completamente naturale.
Chiusi gli occhi cercando di escluderlo dalla mia visuale.
Vivere...era questo quello che mi aveva chiesto Glauco.
Era una cosa davvero difficile, ma ci avrei provato, un poco alla volta.
"Hai la febbre" quella dell'uomo era una voce pacata e profonda.
Aprii gli occhi, tornando a guardarlo per un attimo prima di richiuderli nuovamente. Mi sentivo accaldata e dolorante, e uno stato di confusione non mi permise di pensare oltre alla mia situazione. Fu così che permisi nuovamente all'oblio di accogliermi tra le sue braccia.

Fuoco,grida e morte si mischiavano ad immagini di un passato impossibile da dimenticare, che prendeva vita in me come se mille fiamme vive bruciassero tutto quello che era rimasto del mio corpo martoriato.
Non potevo rimanere lì, dovevo muovermi, dovevo fare qualcosa per scacciare quelle visioni terribili, dovevo...
"Stai calma" una mano fresca si posò sulla mia fronte, occupando il posto di quella che doveva essere una pezzuola fredda.
"Ah" appena cercai di alzarmi scariche di dolore si propagarono tra i miei arti, e la debolezza mi schiaccio nuovamente sul materasso.
"Il braccio dell'uomo cinse le mie spalle e mi portò alle labbra dell'acqua, che bevvi con avidità.
"Piano, non esagerare" lo guardai negli occhi mentre bevevo più lentamente.
"Ecco così brava a piccoli sorsi". Una volta finito di bere mi riadagio giu lentamente.
Una mano si alzò per scostarmi una ciocca di capelli dal viso, ma nonostante la malattia, fui veloce a scansarmi per impedire che mi toccasse più del dovuto.
Non conoscevo quell'uomo, e il suo aspetto, per quanto piacevole, mi ricordava troppo quella razza così crudele.
Mi aveva trattata con gentilezza dal primo momento in cui ci eravamo incontrati, al mio arrivo il quel luogo estraneo ed ostile, aiutandomi ad alzarmi in un momento di difficoltà, ma era pur sempre uno di loro, e non bastava qualche gesto gentile per cancellare con un colpo solo tutto ciò che mi era stato fatto.
Tuttavia, dopo averlo rifiutato così palesemente ebbi paura della reazione che avrei potuto suscitare e mi coprii istintivamente il viso con le mani, aspettando una punizione che con mio grande stupore, non arrivò mai.
Abbassai lentamente le mani rimanendo in silenzio. Lui era ancora lì con la mano sospesa e lo sguardo triste.
"Non avere paura di me" sospirò "Lo so che per te è difficile accettarlo, ma non sono come loro" Si alzò dalla sedia posta vicino al lato del letto sul quale ero distesa.
"Hai tutte le ragione per reagire così. Ora riposa"
Potei sentire il rumore dei suoi passi mentre si allontanava dalla stanza, permettendomi di tornare a rilassarmi.
Chiusi gli occhi e scivolai in un sonno profondo.

Non so quanto tempo passò prima di riaprire nuovamente gli occhi, So solo che quando mi svegliai la stanza era fiocamente illuminata dalla luce di una candela.
Mi sentivo ancora debole e dolorante ma, la prima cosa che feci fu controllare che in giro non ci fosse nessuno.
Piano piano mi alzai a sedere, memore del mio stato di salute, una volta riuscitaci mi sentii orgogliosa della mia piccola conquista.
Scostando le coperte pogiai i piedi sul pavimento di legno, fermandomi qualche momento per riprendere le forze. Purtroppo dovevo andare in bagno e volevo farlo prima che arrivasse lo sconosciuto ad aiutarmi. Vagai con lo sguardo per la camera in cerca di un piccolo secchio o qualche altra bacinella, ma l'unica che vidi disponibile era piena di acqua insanguinata accanto al mio letto.
A quanto pare sarei dovuta uscire fuori. Presi fiato e sempre muovendomi molto lentamente cominciai ad alzarmi in piedi. Appena sollevatami ebbi subito un capogiro e dovetti appoggiarmi al piccolo tavolino sul quale era poggiata la bacinella.
Il mio corpo era ricoperto di bende a loro volta macchiate del mio stesso sangue, subito provai un conato di nausea.
Tuttavia nonostante il giramento di testa, andai avanti imperterrita mettendo un passo dietro l'altro fino ad arrivare allo stipite della porta al quale mi appoggiai pesantemente. Ero sfinita, ma dovevo provare lo stesso. Spalancai tremante la porta di legno, e mi ritrovai fuori.
Il vento freddo della sera mi investi improvvisamente. Chiusi gli occhi per un momento cercando di assaporarlo nonostante il mio corpo gemeva dal dolore. Poi liriaprii mandandando indietro la testa e guardando il cielo stellato sopra di me, che si stendeva splendente e magnifico sopra il mondo, gettando sulla terra un velo luminoso che rendeva tutto magico.
Alla fine quando sentii di non farcela piu trovai un piccolo angolino poco lontano dalla porta, che raggiunsi tenendo una mano poggiata alla parete. Finalmente arrivai alla mia meta, accovacciandomi e liberandomi. Poi mi rialzai in piedi e la vista mi si offuscò, mossi qualche passo nella direzione nella quale ero venuta, ma alla fine mi accasciai al suolo, incosciente.
Poi avvertii afferrami sotto le spalle e una mano scivolarmi nella piega delle ginocchia, e lasciai il suolo, sorretta da quel uomo che tante volte mi aveva aiutata prima di allora.
Lo guardai mentre mi trasportava e sembrava irritato, o forse la sua era solo preoccupazione. Quando si accorse che lo stavo osservando torno a guardarmi con quegli occhi incredibilmente magnetici. Poggiai la testa sul suo petto, priva di forze, mentre varcavamo nuovamente la soglia della casa e venivo riadagiata sul letto, oramai diventato freddo.
Appena mi ebbe coperta si girò verso le braci oramai spente e armeggiò intorno al braciere con delle pietre focaie accucciandosi, mentre esplicava il suo compito. I colpi delle due pietre che si sfregavano tra loro riecheggiò fino a quando il fuoco fu riattizzato. Alzandosi in piedi parlò facendo riecheggiare la sua voce nella stanza tornata al completo silenzio. “Perché non mi hai aspettato?” attese una risposta che non giunse mai. Strinsi debolmente le coperte al petto temendo una reazione irata. “Capisci quello che hai rischiato? Non sei in grado di muoverti da sola, avresti dovuto aspettarmi” fece una pausa. Più che arrabbiato sembrava accigliato “Bene, rimani anche in silenzio, ora però devo ricontrollarti le fasciature, sono insanguinate, qualche ferita deve essersi riaperta” si avvicinò al letto con fare deciso. Tirò delicatamente le coperte e quando vide che non ero disposta a cedere terreno, mi tolse le mani con decisione scostando poi le coperte da se.
Fissai per la prima volta il mio corpo dopo molto tempo. Grandi strisce di tessuto mi fasciavanovil corpo dal seno fino ad rrivare alle ginocchia. Non pensavo di essere ridotta così male, ecco spiegato il bruciore che mi torturava.
Alcune delle fasciature erano macchiate di sangue.
"Dovrò toglierti queste tre fasce, e per farlo ho bisogno che tu ti alzi a sedere" Anuii debolmente e appena accennai a muovermi mi venne in soccorso cingendomi le spalle con un braccio e aiutandomi fino a quando non mi ritrovai nella posizione desiderata.
Tenevo lo sguardo lontano da quel suo volto che tanto mi turbava, fissando invece le sue grandi mani, dalla forma affusolata.
I calli sui polpastrelli dimostravano che anche lui era avezzo al lavoro e a maneggiare una spada. Tuttavia la sua pelle non possedeva la sgradevole consistenza di quelle mani che mi avevano armeggiata prima del suo arrivo. Evidentemente il suo mestiere principale non era quello di soldato, e di questo ne fui lieta, era un piccolo particolare che mi aiutava a ricordare che non era lui il mostro che mi aveva fatto tutto questo.
Provai vergogna quando mi denudò parzialmente, ma i suoi movimenti pacati e regolari cominciarono a rilassarmi come è solito fare una leggera litania.
Fu per questo che non mi stupii quando prese un vasetto di terracotta sopra la mensola pogiata vicino alla parete sulla quale era vicino il piccolo bracere.
Appena tolse la pelle che copriva l'estremità superiore si diffuse in camera l'odore inconfondibille dell'Altea e della Malva.
Un senso di familiarità mi pervase, ricordando i lunghi pomeriggi trascorsi con mia madre nei boschi, in cerca di nuove piante da utilizzare.
Le donne della nsotra famiglia erano guaritrici e cosi ero stata educata io stessa.
Quello che l'uomo stava preparando era un cataplasma per lenire ferite della pelle e favorirne la cicatrizzazione.
Lo osservai prendere abbondantemente l'unguento e posizionarlo da tra due fasce, andando poi a posizionarlo direttamente sulla pelle scoperta.
Una sensazione rinfrescante giunse benedetta e mi lasciai sfuggire un piccolo gemito, per la prima volta dopo molto tempo non di dolore.
Mi voltai verso l'uomo e vidi che aveva l'angolo sinistro della bocca sollevato in un leggero sorriso, cosi che mi sbrigai a girare di nuovo la testa, sentendo il rossore salire a colorarmi le guancie gia arrossate dalla febbre.
Rimasi in silenzio per tutto il tempo che servì ad applicare il cataplasma, poi prima di essere riadagiata giu, l'uomo si alzò dalla sedia e si diresse verso un piccolo pentolino da poco tolto dal fuoco.
Riempì un bicchiere con quello che doveva essere un decotto d'agrifoglio, e tornò poi verso il letto porgendomi il bicchiere che era anch'esso di terracotta.
"Bevi" disse perentorio " Serve ad aiutare la febbre a lasciare il tuo corpo".
Presi la tazza dalla sua mano tesa, e lo sorseggiai lentamente, troppo debole per accennare anche una sola protesta. Del resto mi stava curando in maniera esemplare e non avevo il diritto di lamentarmi.
Una volta finito di bere, gli tesi nuovamente il bicchiere, e poi mi sdraia, felice di addormentarmi.
Tuttavia prima di lasciarmi andare, girai la testa verso di lui e con voce roca gli domandai "Qual'è il tuo nome?"
Mi diede le spalle prima di rispondermi "Mi chiamo Ruari di Moray" attese un momento prima di diriggersi verso la porta e spalancarla "Ora riposa"
Appena sentii il suono dei suoi passi allontanarsi, chiusi gli occhi e ripetei silenziosamente il nome del mio salvatore.

sabato 27 febbraio 2010

Schiava del fato - 3° capitolo




Il suono metallico della serratura che si apriva riecheggiava sinistramente all'interno della cella.
Sollevai lentamente la testa - fino ad allora poggiata stancamente sulle ginocchia.
Mi scostai i capelli dal viso con un mano tremante, bene finalmente era arrivato il nostro turno di andarcene da lì.
Sinceramente non mi importava un granché di quello che mi sarebbe successo una volta uscita da quel antro che era diventato il mio personale incubo.
Il fetore era insopportabile, così come la sporcizia che vi regnava.
Poggiai una mano a terra e mi alzai faticosamente in piedi.
Non avrei di certo aspettato che fossero state le guardie ad ordinarmelo.
Nessuno dei miei compagni di sventura osò emettere il minimo suono, e anche loro si issarono in piedi rassegnati.
La luce che filtrava più intensamente mi permise di guardare intorno, e non mi stupii di quello che vidi: Relitti umani. Persone dai lunghi capelli sporchi e uomini dalle barbe folte e ispide.
Quando finalmente i soldati furono al completo tendemmo le mani pronti ad essere legati per nulla stupiti dal trattamento che stavamo ricevendo, l'essere maltrattati era ormai diventata un abitudine, così come la nostra reazione apatica agli abusi subiti.
Quanti giorni erano passati da quando tutto era cominciato? dieci giorni? quindici? un mese? non lo sapevo e non mi interessava, stavo sprofondando sempre di più in un abisso emotivo che mi aiutare a rifuggire quella realtà così intollerabile per me, e quello stato di stordimento emotivo era l'unica cosa che mi permetteva di non impazzire, di non rivedere per la millesima volta le scene di massacro che scorrevano nei miei sogni ogni volta che osavo abbassare la guardia.
Fissai ostinatamente il muro di fronte a me fino a quando mi sentii legare le mani cosi strettamente da provare dolore.
Eravamo rimasti in pochi, due donne accoccolate tra di loro non si erano alzate dal loro giaciglio ; osservai un soldato che si dirigeva velocemente verso di loro:
"Alzatevi forza" Corrugo la fronte irritato quando le due donne non obbedirono al suo comando.
Sferrando un calcio a una delle due, attese pochi attimi girandosi poi verso il suo superiore quando non ricevette in risposta nessuna reazione. "Sono morte signore"
"Lasciale lì, manderò più tardi qualcuno che le getti nella fossa comune"
Immediatamente il livello di tensione si alzò e serpeggio tra noi superstiti.
Prima di essere spinta fuori dall'uscio mi girai a guardare le due donne che si tenevano per mano, mentre una lacrima solitaria correva libera sulla mia guancia.
"Muoviti, dannazione, non farmelo ripetere due volte se non vuoi che ti riduca come quelle due lì, ossia Morta!"
Non risposi, ma accelerai il passo prendendo il mio posto in fila, mentre alzavo le mani legate per asciugare quella lacrima, simbolo dell'umanità che ancora risiedeva in me.
Mentre ci accingemmo a salire le scale per la prima volta dopo molto tempo torno a riaffiorare il dolore alla caviglia che avevo dimenticato, non avendo più realmente camminato da un po di tempo.
Abbassai lo sguardo e la vidi gonfia come non lo era mai stata, pazienza non credo che sarebbe contato molto, di certo non mi sarebbe servita per correre e scappare via, sicché l'unica cosa che mi rimaneva da fare era catalogare questo come uno dei tanti dolori che ero costretta a sopportare in silenzio. Ad essere sincera mi consideravo anche discretamente fortunata non essendo io quella ridotta nelle peggiori condizioni.
Contai mentalmente ogni scalino che salimmo, e una volta arrivati in cima riconobbi la sala nella quale ci trovavamo, avendola percorsa nel senso opposta molto tempo prima.
Appena giunti di fronte all'imponente portone in legno massiccio fummo fatti fermare in attesa che il guerriero a capo del nostro gruppo urlasse l'ordine di aprire le porte per farci passare.
Appena mi ritrovai all'esterno, sentii la luce del sole che mi feri gli occhi costringendomi a chiuderli. Quello che percepii in un secondo momento fu l'aria fresca che mi riempiva i polmoni liberandomi da quel odore di sudiciume che era diventato cosi familiare da non essere più nemmeno percepito.
Per ultimo sentii le grida di una folla riunita nella piazza del forte; Furono quelle grida che mi spinsero lentamente ad aprire gli occhi.
Camminai fino al centro della piazza dove ci aspettavano altre guardie, alcune delle quali sedute su delle panche di fronte alle quali erano stati messi dei tavolini piuttosto sbilenchi.
I soldati li seduti erano intenti a scrivere qualcosa su dei fogli mentre la folla di persone strepitava sempre di più.

Un'altro soldato venne a disporci in fila per uno, mentre un suo compagno prese il ragazzo accanto a me portandolo vicino ad un palo al centro della piazza dove gli furono tagliati i lunghi capelli. Lo stesso soldato appena posate le forbici prese un ferro lungo da un mucchio di braci che non avevo notato.

Venne fatta abbassare la testa al ragazzo e l'estremità incandescente che fino ad allora era stata poggiata direttamente sulle braci fu premuta con mano ferma sulla base del collo del ragazzo che lanciò un urlo disumano mentre si dibatteva nel tentare di liberarsi.

Appena il ferrò fu allontanato, un piccolo secchio d'acqua fu gettato lì dove si era formato un marchio.

Il ragazzo venne poi fatto portare gocciolante difronte la folla e vicino a uno degli uomini seduti ai tavoli.

Partì cosi, inaspettatamente quella che era un asta. Con stupore compresi il motivo per il quale eravamo lì: Ci stavano vendendo, nemmeno fossimo bestie.

Un coro di voci si alzò dalla folla facendo proposte sempre più consistenti.

Al termine dell'asta il ragazzo fu venduto per un sacco e mezzo di avena lavorata. La donna che se lo era aggiudicato si diresse verso il tavolo a ritirare un documento che supposi fosse quello che attestava l'appartenenza dello schiavo.

Lo stesso trattamento fu riservato a due uomini alla sua destra che furono poi trascinati via in catene dai loro nuovi padroni destinati ad un esistenza di schiavitù.

Venne così il turno di un ragazzino che non doveva avere più di tredici anni.
L'unica differenza è che una volta marchiato questi si volto da una parte e vomitò, proprio sui piedi del soldato a capo del gruppo che gli era accanto, il quale sguainando la spada lo porto al palo, lo lego e gli taglio la gola di fronte alla folla divertita da quello spettacolo.
Rivolgendosi verso di noi ripose la spada ancora sporca di sangue nel fodero.
"Che vi sia di monito, feccia." fece una pausa camminando avanti e indietro dando spettacolo, compiaciuto di se. "Nessuno, può sperare di compiere un gesto così infamante nei nostri confronti senza ricevere una punizione adeguata ai vostri misfatti" un altra pausa "La vostra vita non conta un bel nulla per noi, prima lo capirete meglio sarà"
Un ultimo fievole gemito fu emesso dal ragazzino, e l'inquietante silenzio che provenne dalla sua direzione ci fece capire che era oramai morto.
Rimasi orripilata dal gesto così orribilmente barbaro che era stato compiuto.
Quegli uomini si esprimevano correttamente a parole, ma nei modi erano dei selvaggi.
Il corpo venne slegato e gettato da una parte, mentre il mio sguardo disgustato era attratto dalla figura di colui che era stato in grado di compiere un atto cosi disumano. L'odiai, l'odiai infinitamente tanto,con tutto il furore che il mio cuore lacerato era in grado di provarem riversando così su di lui tutte le colpe dei maltrattamenti subiti fino ad allora da tutto il mio popolo.
Era un maledetto, erano tutti dei maledetti; una banda di profanatori senz'anima, senza principi, abbandonati da tutti gli Dei.
Una massa di assassini che non davano il minimo valore alla cosa più bella che possedevamo: La vita.
Lo fissai cosi a lungo e intensamente che non potei fare a meno di essere notata da uno dei soldati che diede di gomito a quello che era diventato il mio capro espiatorio.
Fu così che mi notò, girandosi con il busto verso di me,indicandomi alzando il grande braccio muscoloso e peloso.
"Ehi Tu!" si avvicinò a me con un sorrisetto malvagio. "Ma guarda un po cosa abbiamo qui" Abbassò il viso fino ad arrivare alla mia altezza, fissandomi così direttamente negli occhi. "Vorresti uccidermi dì la verità" mi guardò a lungo, mentre rimasi in silenzio non osando sfidarlo ancora di più "Oh si che vorresti, lo vedo nei tuoi occhi" Sorrise compiaciuto. Era un bel uomo e lui sapeva di esserlo, lo si vedeva dal modo compiacente nel quale si muoveva nonostante il rigido rigore di soldato.
Risollevò il volto prendendomi i polsi con una sola grande mano, stringendoli forte alzandoli e costringendomi cosi a stendere le braccia verso il cielo.
"Bene gente, abbiamo qui un succulento bocconcino pronto per voi. Chi vuole comperare questa bella ragazza?" Un coro di offerte salì immediatamente dalla folla.
Ridendo di gusto l'uomo mi porto verso il braciere con il ferro incandescente che riposava su di esso. Cercai debolmente di scansarmi, impaurita da quello che mi stava aspettando.
"Non fai più la spavalda ora eh?" mi sussurro all'orecchio. "Ora ti insegnerò cosa significa il dolore" Mi scostò i capelli mi abbasso di forza la testa e infine premette il metallo incandescente sulla pelle delicata alla base del collo.
Urlai come non avevo mai urlato fino ad ora, mentre i soldati accanto a me ridacchiavano compiaciuti.
Un ondata di dolore si riverso sulla mia pelle, travolgendomi fino a farmi quasi perdere i sensi.
Non percepii nemmeno la mano dell'uomo che allontanò il ferrò dalla mia pelle tanto il dolore era intenso.
Macchie nere mi oscurarono la vista, mentre fui fatta avvicinare al palo lasciato libero dal ragazzino poco prima. Avevo la mente confusa, non riuscivo a formulare un pensiero coerente.
Mani rudi mi strapparono quel che restava della mia tunica mentre mi furono fatte sollevare le bracciata. Sentii dei bracciali di metallo che si chiusero intorno ai miei polsi doloranti liberati dalle corde.
Sentii dei commenti volgari provenire dalla mia sinistra ma non riuscii a comprenderne pienamente il significato.
Una sferzata sul fianco mi fece urlare, strappandomi dalla nebbia che mi circondava e lasciandomi li boccheginate e nuda, esposta agli sguardi di tutti.
"Ti piace, eh?" un altra sferzata mi colpì sul seno " Su dillo ti piace questo?" il sangue cominciò a sgorgare lentamente dalla ferita, risaltando cremisi e brillante sulla mia pelle bianca, mentre si susseguivano una sferzata dietro l'altra a distanza di pochi momenti. Strinsi i denti, cercando di trattenere ogni gemito di dolore.
A ogni ferita che mi veniva inferta sentivo le forze che mi abbandonavano lasciando dentro me solo dolore e un bruciore incredibilmente intenso. Dopo l'ennesima sferzata che mi colpì sul polpaccio sinistro, piansi lacrime amare, non mi importava più di essere osservata. Che guardassero pure la mia sofferenza e si beassero di essa. Guardai tra le palpebre semi chiuse il braccio dell'uomo che si alzava e si abbassava su di me, con una precisione che rivelava che era avezzo a quelle pratiche.
Il sangue viscido si mischiava al sudore e alle lacrime. Non ce la facevo più a stare in piedi, e se non fosse stato per le catene che mi teneva ritta probabilmente sarei gia caduta al suolo.
Mi accasciai tuttavia su me stessa, per quanto mi fosse possibile dalla posizione imppostami, lasciando la testa penzolare,sfiancata fin nel profondo dell'anima.
Fu allora che l'uomo smise di frustarmi, tornando a rivolgersi al pubblico.
"Ora, chi vuole fare un offerta per la ragazza? come potete vedere è stata ben educata e sarà docile nelle vostre mani".
Tra i rumori della folla si alzò potente una voce profonda e calda, inconfondibilmente maschile "Quindici monete d'oro"
Il silenzio calò immediatamente nella piazza. Capii che doveva trattarsi di una somma esorbitante; Anche tra il mio popolo era molto raro l'uso di monete d'oro, essendo quello un materiale molto bello e prezioso.
Accigliato il mio torturatore fisso l'offerente "Siete serio voi laggiù?"
L'uomo si fece avanti facendo tintinnare un sacchetto. Aprii gli occhi per vedere chi era ad aver fatto un offerta simile per una schiava nelle mie condizioni.
"Io non scherzo mai"
Fissai le sue spalle mentre gettava il sacchetto di pelle marrone sul tavolo di un soldato che si stata sbrigando a preparare la pergamena.
Si girò infine verso di me, i lunghi capelli castani che scintillavano al sole, lasciavano scoperto il bel viso, rivelando quel inconfondibile sguardo che era rimasto marchiato a fuoco nella mia mente. Lo stesso sguardo di colui che mi aveva rivolto quel unico gesto gentile, dall'inizio di tutto.
Lo fissai negli occhi mentre si avvicinava a me, e continuai a fissarlo anche quando mi slegarono, e lui guardò me nascondendo una forza sopita che mi infuse uno strano senso di pace.
Poi appena fui libera dalle catene, mi accasciai al suolo, prima di forze.
L'ultima cosa che vidi, furono i suoi incredibili occhi chiari.









lunedì 18 gennaio 2010

Schiava del fato - 2° capitolo


Dopo che ci ebbero legati gli uni agli altri, le guardie ci fecero scendere malamente dai carri e fatti camminare in una strada affolata, mostrati con orgoglio agli occhi della popolazione, giunta ad accoglierci tra insulti e risate di scherno.
Procedevamo lentamente essendo stanchi, affamati e sopratutto impauriti.
Cercai di mantenere sempre un buon passo per evitare di attirare su di me le ire dei soldati che ci accompagnavano. Quella gente non esitava ad usare la violenza ed io per il momento non avevo bisogno di ulteriori maltrattamenti.
Il fetore che aleggiava intorno a noi era molto intenso e in gran parte proveniva da noi stessi. Abbassai lo sguardo per osservare quel che rimaneva della mia tunica battesimale: Era sporca di fango e del sangue di mio fratello oramai incrostato sul tessuto.
Pensare a Glauco e alla mia famiglia era un dolore intollerabile, Dio quanto mi mancavano, se solo avessi potuto piangere la loro morte sfogando tutto il dolore che mi portavo nel petto, forse ora controllare le mie emozioni sarebbe stato più semplice, ma purtroppo non toccava a me decidere, ora la mia vita era nelle mani di questi esseri demoniaci, che non conoscevano ne grazia ne misericordia.
Grande era lo schiamazzo della folla corsa ad osservarci, e più rimanevamo impassibili, più le provocazioni nei nostri confronti aumentavano.
Un bambino che non doveva avere più di otto anni, si chinò a raccogliere una manciata di fango dal terreno e lo getto addosso ad un uomo che si trovava poco piu avanti a me nella fila.
Questi fece finta di niente, alzo solo le mani che erano legate tra loro per pulirsi il viso continuando a camminare e tenendo lo sguardo fisso davanti a sè.
Cercando di non farmi notare scrutai furtivamente intorno a me: Spogli edifici in pietra scura costeggiavano la strada, mentre in lontananza si poteva scorgere un grande forte che, imponente, dominava la città.
Tutto sembrava privo di colore, eppure dovevo ammettere che c'era qualcosa di selvaggio in tutto ciò, un qualcosa che affascinava.
Le persone che abitavano quel luogo erano molto diverse da quelle che ero abituata ad osservare ogni giorno.
Erano più alti, gli uomini imponenti e privi di ogni traccia di delicatezza, i volti pallidi e gli occhi chiari dallo sguardo duro, tipico di chi vive ogni giorno in una realtà dura contornata da poche gioie. Ma sopratutto Ognuno di loro possedeva un indomita massa di capelli lunghi e selvaggi.
In quel momento inciampai su un sasso che sporgeva dal terreno. Sentii la caviglia torcersi e immediatamente un dolore pulsante crescere fino a strattapparmi un piccolo gemito. Stringendo i denti tornai a posare il peso sul piede nel compiere un altro passo. Non mi sarei di certo fermata per una piccola storta, avrei ignorato il dolore andando avanti come qualsiasi altra persona avrebbe fatto nelle mie condizioni.
"Forza, più veloci feccia umana" una frusta schiocco a terra vicino ai miei piedi. Posai lo sguardo alla mia sinistra di colpo intimorita da quel rumore. Cercai di velocizzare il passo nel tentativo di non destare l'ira dell'uomo vicino a me, ma i miei tentativi goffi non fecero altro che attirare la sua attenzione.
Come a ribadire la sua superiorità agitò la frusta in maniera minacciosa "Cosa guardi cagna, cammina piuttosto".
Mi morsi il labro inferiore per impedire a me stessa di protestare.
Cercai così di accellare il passo, ma il mio piede gia dolorante protesto vivamente quando lo sovraccaricai scelleratamente del mio peso, e finii così per inciampare e cadere fuori dalla fila. Annaspai inpaurita cercando di rimettermi in piedi, poi chiusi gli occhi preparandomi gia a ricevere un colpo. Con mia vergogna iniziai a tremare, piena di paura per il trattamento che avrei ricevuto, ma inaspettatamente invece di sentire una sferzata, sentii delle mani che stringendomi saldamente per le spalle, mi aiutavano ad alzarmi.
Una volta in piedi aprii gli occhi ritrovandomi a fissare un uomo dallo sguardo di un blu intenso nel quale trovai qualcosa che non mi sarei mai aspettata di ricevere: Gentilezza.
Dovevo essere rimasta imbambolata a fissarlo perché lo sconosciuto mi diete una piccola, ma gentile spinta "Vai".
Ricominciai a camminare voltando la testa per cercare di guardarlo ancora, ma poi lo persi di vista. Non avrei mai dimenticato quell'unico gesto umano che per la prima volta da giorni mi fu rivolto.

Tra strattoni, comandi ed insulti arrivammo finalmente al forte.
Degli uomini a cavallo ci stavano aspettando di fronte al grande cancello.
Indossavano delle splendite armature che gli conferivano un aria signorile, di certo doveva trattarsi di persone dalla levatura superiore rispetto a quell iche ci avevano catturato.
Uno di questi soldati si fece avanti rivolgendosi al capo del nostro gruppo
"A quanto vedo la missione è stata un successo" la voce era profonda e pesantemente accentata "Quanti ne avete portati indietro?"
"Inizialmente erano in settantotto, poi durante il viaggio ne abbiamo persi alcuni"
" E ora quanti ne sono rimasti dunque?"
" Quarantasette" Il modo leggermente scattoso nel quale si muoveva attirò la mia attenzione
"Avete trovato resistenza?" lo sguardo dell'uomo era duro come l'acciaio e non mostrava traccia di approvazione.
"No mio signore, ma la popolazione era più numerosa del previsto, e per avere la sicurezza della facile vittoria non potevamo permetterci di fare troppi prigionieri, non volevamo rischiare una rivolta durante il tragitto del ritorno"
"Capisco. Sappi tuttavia, che non sono molto soddisfatto, ma per questa volta sarò clemente con te e con i tuoi compagni".
Girando il cavallo si diresse nuovamente verso gli altri uomini a cavallo che lo attendevano alle sue spalle.
Avvertii la tesione sciogliersi nei soldati accanto a noi, come se avessero tirato simultaneamente un sospiro di solievo... peccato, sarebbe stato bello vedere il loro sangue che macchiava il terreno.
Mi ritrovai a fissare gli uomini a cavallo insistentemente, ma subito distolsi lo sguardo. Sbirciai discretamente intorno a me, ma a quanto pare nessuno mi aveva notata.
Gli uomini a cavallo si girarono a guardarci prima di spronare le loro cavalcature e andarsene, mentre quello che doveva essere il loro capo si fermò un momento accanto ai guerrieri in testa al gruppo
"Solito trattamento per i prigionieri ma questa volta divideteli in tre gruppi"
"Certo signore" rispose il capogruppo, mentre poggiava un ginocchio a terra abbassando la testa in segno di rispetto.
Alzandosi in piedi si giro verso di noi e ricominciò a tuonare ad alta voce "Forza luride bestie muovetevi priama che vi faccia passare io la voglia di stare fermi ad oziare"
Come se fossimo un sol uomo riprendemmo a muoverci. Una volta passato il primo cancello ci ritrovammo a percorrere un corridoio in marmo per sfociare poi nella grande piazza all'interno del forte.
Fummo acconti dal clangore di diverse spade che cozzavano abilmente tra loro. Individuai così il gruppo di soldati alla nostra destra che con movimenti ipnotici volteggiavano su loro stessi in una danzata fatta di parate e stoccate. Mi stupii di vedere quanto quei guerrieri erano aggraziati nonostante la loro stazza. Di certo erano combattenti formidabili.
Solo in seguito notai le cateneaffisse sulla parete dell'edificio principale che si trovava proprio di fronte all'entrata.
Non potevo fare a meno di chiedermi che cosa ne avrebbero fatto di noi. Di certo il loro scopo non era quello ucciderci. Non subito almeno, altrimenti quale sarebbe stata la ragione di mantenerci in vita fino ad allora?
Dovevamo servigli a qualche cosa di certo, ma era dannatamente difficile cercare di comprendere quel popolo cosi diverso da noi.
Per loro niente sembrava avere realmente importanza se non la forza bruta, eppure si arrogavano il diritto di vita e di morte, quel diritto che spettava solo agli dei.
Mentre ci trascinavano all'interno del corpo principale dell'edificio, vidi i soldati che prima stavano combattendo, interormpere le loro attività per guardare nella nostra direzione con sorrisi apparentemente soddisfatti.
Mi chiesi se anche loro si sarebbero uniti a quella schiera di persone pronte solo a farci del male.
Entrati nell'edificio, fummo condotti a una rampa di scale. Iniziammo cosi la discesa nei nostri peggiori incubi.

Una grande porta di ferro cigolò in maniera sinistra e il guardiano che l'aveva aperta si spostò di lato per farci passare. Uno ad uno fummo spinti aldilà della soglia.
Il buio aleggiava pesantemente nello stanzone, ed era così fitto che non fui in grado di distinguere nemmeno i contorni delle cose. Non c'erano finistre lì, lo si poteva percepire anche dall'aria ferma e immobile che odorava di morte.
La porta fu chiusa dietro di noi, isolandoci in una dimensione priva di tutto quello che avevamo amato: Luce, aria, sole, acqua.
Cercai a tentoni una parete e la trovai dopo essere andata a sbattere contro tre persone. Una volta arrivata alla meta mi lascia cadere a terra poggiandovi la schiena.
Mi portai le ginocchia al petto e vi nacosi il volto.
Ogni movimento, ogni bisbiglio o gemito era amplicato dentro quella cella buia. Tirai dei respiri profondi ignorando il tanfo che c'era lì dentro. Cercai di escludere il mondo, anche se ora il mio mondo era quella realtà così dolorosa.
Respirai cercando di calmarmi, ma più respiravo più sentivo il mio petto che cominciava ad essere scosso da singhiozzi silenziosi.
Una piccola mano si posò sulle mie ginocchia, alzai di scatto la testa spalancando gli occhi. Un bambino di non più di 10 anni si avvicinò a me, e mi guardò a lungo.
Che pena mi fece vedere quanta tristezza vi era li dentro;
Fu allora che mi lasciai andare. Non ce la fecevo più a trattenere le lacrime;
Gettando fuori un sospiro tremulo, piansi abbracciando convulsamente il bambino che aveva liberato quelle lacrime che fino ad allora erano rimaste dentro di me a bruciarmi la gola.
Strinsi a me quel bambino immaginando di abbracciare tutte le persone che mi erano state strappate; abbracciai quel bambino per ritrovare il calore umano fino ad allora dimenticato, abbracciai quel bambino per ricordare a me stessa che essere umani significava anche amare e soffrire, e abbracciai quel bambino per dare a lui quel conforto che solo il contatto con una persona vicina può dare.
Detti libero sfogo così non solo al mio dolore, ma anche a quello di tutti i presenti che per la prima volta si strinserò gli uni contro gli altri, non facendo domande ne chiedendo risposte, ma solo per provare a se stessi che non era ancora finita.
"Non ha senso, tutto questo non ha senso." una donna dai lunghi capelli si passo una mano tra la sua chioma oramai incrostata di sporcizia. "Niente ha senso. Non ci uccidono, ma ci gettano qui dentro ad aspettare. Aspettare cosa?" una traccia di isterismo si diffuse nella voce prima debole.
Si alzò in piedi di scatto cominciando a camminare avanti e indietro. Più che vederla, sentivo il rumore della suola delle sue scarpe sul pavimento di pietra.
Tutto era avvolto in un alone di oscurità, solo una sottile luce proveniente dalla porta ci ridava parzialmente l'uso della vista.
"Si che vi è un senso in tutto questo, e lo scopriremo presto" la voce roca di un uomo mi raggiunse dall'angolo opposto della cella. Era stanca, e priva di forza. " C'è un motivo per il quale non ci hanno ancora ucciso e credo..."
Ba Ba BAM. Dei colpi furono martellati sulla porta seguiti da una voce maschile decisamente alterata.
" Ei lì dentro fate silenzio, e non costringetemi ad entrare se non volete ricevere un trattamento che vi farà pentire di essere nati"
Una scarica di terrore si diffuse tra tutti i prigionieri. Mi rannicchiai sempre di più su me stessa tenendo vicino a me quel dolce bambino che mi si era avvicinato prima.
Fu quando il silenzio fu ristabilito da molto tempo che osai avvicinare la mia bocca all'orecchio del bambino e bisbigliare piano "Qual'è il tuo nome?"
Imitando a sua volta i miei movimenti, sentii le piccole labbra del bambino posarsi sul mio orecchio "Zefiro" fece una pausa "e il tuo?"
"Faolar, mi chiamo Faolar" poggiai la guancia sulla sua testa e sentii le sue braccia cingersi attorno alla mia vita.
"Sai io ti vidi, durante il battesimo, eri molto bella." Nascose timidamente il viso nell'incavo della mia spalla.
Il ricordo di quel giorno, oramai così lontano dalla mia vita attuale mi provocò un altra piccola stillettata al cuore "Grazie" le labbra mi tremarono e sospirando mi lasciai scivolare in un sonno privo di sogni.

Aprii gli occhi, sbattei le palpebre piu volte ma non riuscii a focalizzare nulla. Notai che la luce fievole che filtrava da sotto la porta era stata spenta.
Sentire il piccolo petto di Zefiro premuto contro il mio fianco alzarsi e abbassarsi regolarmente mi fece svegliare del tutto.
Piccoli singhiozzi trattenuti rompevano il silenzio glaciale che si era venuto a creare all'interno della cella.
Mi alzai cercando di non svegliare Zefiro, quelli del sonno erano gli unici momenti nella quale poteva evadere dalla realtà e non volevo riportarlo immediatamento nel nostro limbo personale. Ma io dovevo fare pipì.
Non essendoci un bagno, raggiunsi un angolo a tentoni, e dopo aver controllato che fosse vuoto - agitando un braccio fendendo l'aria vicino a me - mi chinai e alzai i cenci sporchi che componevano la mia veste.
Mi vergognavo, mai in vita mia mi ero ridotta a fare una cosa del genere, e anche se era niente in confronto a quando avevo passato, perdere anche l'ultimo briciolo di civiltà mi fece salire le lacrime agli occhi.
L'odore che impregnava nell'aria mi fece capire che non ero l'unica ad aver avuto questo stimolo.
Del resto eravamo in molti la dentro, e c'erano tutte le premesse che vi rimanessimo a lungo.
Quella cella sarebbe presto diventata una latrina, se fossimo andati avanti di quel passo.
Tornai al mio posto, e quando mi sedetti, trovai Zefiro che mi aspettava sveglio anche se insonnolito.
Gli accarezzai i capelli "Sei un bambino corsaggioso" gli sussurrai
"Non ho paura del buio, è degli uomini che ho paura." fece una piccola pausa "mi sento stanco Faolar, tanto stanco."
"Chiudi gli occhi allora e immagina i verdi prati che costeggiano la nostra bella città, immagina di essere lì a correre e a guardare il sole e dormi sognando questo."
Lo senti annuire e stendersi accando a me poggiando la testa sulle mie ginocchia.
Cercai di fare anche io lo stesso, ma immagini di fiamme presero il posto dei boschi nella mia mente e gli occhi spalancati di mio fratello mentre mi fissava un attimo prima di morire mi fecero aprire i miei mentre ricominciavo a piangere cercancado così di far uscire tutto il dolore che stavo accumulando dentro me, fallendo miseramente.
Sembrava che non ci fosse mai fine alle lacrime, e quando finalmente non ne ebbi più da far uscire fuori rimasi per quelle sembravano ore a fissare il buio di fronte a me con gli occhi, che bruciando, mi ricordavano che non era ancora finita.

Non so dire quanti giorni passammo dentro quella cella.
Il tempo era scandito dall'avvicinarsi dei soldati che venivano annunciati dal suono pesante dei loro passi.
Aprivano la porta e quando questa veniva spalancata una lieve luce ci mostrava per un attimo quello nel quale ci stavamo trasformando: derelitti.
Quelle oscure figure gettavano dentro del cibo e portavano dell'acqua dal cattivo sapore.
Mi gettavo su quegli avanzi con foga nel tentativo di prenderne non soltanto per me ma anche per Zefiro, verso il quale stavo sviluppando un grande attaccamento: Eravamo la forza l'uno dell'altra.
Più il tempo passava più il fetore dentro quella grande cella aumentava, e più il fetore aumentava più lo notavo meno. Oramai mi ero abituata al buio, all'inerzia e al cattivo odore. L'unica cosa della quale non mi abituavo era lo stato di costante terrore nel quale non solo io, ma tutti vivevamo.
Fu dopo molto tempo che la porta della nostra prigione si aprii per far entrare dentro molti uomini.
"Voi, forza alzatevi" l'uomo che ci aveva portato da mangiare fino ad allora indicò con voce perentoria un gruppetto di persone che si trovavano nella parete opposta alla mia.
"Sbrigatevi ho detto, se non volete che usi al frusta" facendo segno agli uomini che lo accompagnavano, aspettò che questi aiutassero i prigionieri ad alzarsi.
"Legateli immediatamente"
"Si signore" risposero in un corso scordinato gli uomini.
Ci avvicinammo l'uno a l'altro e strinsi Zefiro a me. Dove stavano portando quelle persone?
Tremando cercai di spostarmi più lontano possibile da loro.
Un mormorio impaurito si diffuse in tutta la cella.
"Silenzio!" L'uomo che dava gli ordine fece schioccare con forza la frusta sul pavimento.
"Dannazione quanto ci vuole per legare degli inutili straccioni?" Gli uomini si sbrigarono a terminare il lavoro e spingendo i prigionieri fuori dalla cella potei contarli.
Ne stavano portando via quindici.
Una volta chiusa la porta mi sentii sollevata, non era ancora il mio turno.
Ovviamente gli schiavi prelevati dalla nostra prigione non tornarono mai più indietro.
Durante quelle interminabili giornate d'agonia mi chiesi se li avessero uccisi, e se quella era la sorte che sarebbe toccata anche a noi altri.
Più il tempo passava e più tutte le mie paure prendevano il dominio sulla ragione.
Non riuscivo a dormire, non riuscivo a pensare, a malapena ero in grado di mangiare. Fissavo il vuoto di fronte a me incessantemente, non mi davo mai pace, e quando Zefiro dormiva gli incubi mi raggiungevano anche se facevo di tutto per scacciarli.
Non potevo più continuare in quella maniera me ne rendevo conto persino io.
Poi ritornarono. Le porte si spalancarono facendo entrare le stesse persone che avevano portato via i nostri compagni.
Tutto si svolse nello stesso modo, solo che insieme a loro portarono via anche Zefiro.
Prima che me lo strappassero via lo strinsi a me convulsamente, e quando le guardie lo fecero alzare malamente per legargli le mani, lo trattenni urlando con tutto il fiato che avevo in gola
"No lasciatelo qui con me vi prego"
"Faolar" Le sue lacrime mi strazziarono il cuore che era gia sanguinante.
"No" ripetei con terrore "No vi prego no" piangendo accettai la mia punizione giunta per le mani del soldato che aveva legato Zefiro.
Lo guardai uscire dalla cella sapendo che non sarebbe più tornato.
Quanto dolore avrei dovuto ancora sopportare? sarebbe mai stato abbastanza?
Una volta che il buio torno ad inghiottirmi mi lasciai cadere a terra, e cosi rimasi per giorni, alzandomi solo per andare a mangiare.
Era incredibile, nonostante tutto quello che stavo passando, e il dolore che mi spaccava in due parti il cuore, sentivo la forza della vita che scorreva indomita nel mio sangue, contro tutte le aspettative.
Era un agire meccanico dettato dall'istinto più che dalla ragione. Ogni volta mi alzavo a sedere e strisciando arrivavo al centro dove con dita tremanti raccoglievo ciò che mi bastava e bevevo quanto piu potevo. Una volta fatto tornavo indietro verso la mia nicchia, verso il mio oblio.
Giorno dopo giorno, questa era l'unica cosa che scandiva quella specie di esistenza che mi trovavo a vivere.
Ma come per le persone prima di me, arrivò anche il mio turno e vennero a prendere anche me.

sabato 16 gennaio 2010

Schiava del fato - Le caratteristiche della storia


Quello che sto per scrivere generalmente lo uso come appunto per delineare le caratteristiche delle popolazioni delle quali vado a parlare.
è una sorta di schema che mi aiuta a rendere chiara l'immagine delle varie civiltà della storia, per evitare di contraddirmi durante il racconto e anche per calarmi di piu nei vari personaggi.
Quelle che descrivo sono un mix delle culture di alcune popolazioni realmente esistite nella storia, solo che le plasmerò ovviamente in maniera a me consona.
Quella che vi presento ora è la civiltà di Faolar

La civiltà di Faolar è la civiltà dell'Ellade, un popolo pacifico che si è sviluppato nei presi di un piccolo lago considerato sacro, e da loro visto come simbolo di purezza incontaminata, totale. Le acque sono così splendide e perfetta da esser ritenute come protetette dalle mani stesse di una divinità. Nessuno osa bere quell'acqua perché viene destinata a fini ben più importanti e simbolici. Utilizzano piccole quantità di quell'acqua cristallina solamente durante le funzioni cerimoniali, quali Battesimi e matrimoni.

  • Non credo che debba raccontare nuovamente il rito del battesimo quanto piuttosto spiegare alcuni punti fondamentali. Secondo la popolazione di Faolar il battesimo non doveva essere praticato una volta venuti al mondo, ma piuttosto veniva visto come simbolo di rinascita, di abbandono della fase della fanciulezza nella quale non si era padroni della propria vita, verso una nuova maturita che aveva diramate davanti a se nuove strade e possibilità.Non vi era un età precisa nella quale battezzarsi, ma era una cosa che doveva venire spontanamente, seguire un bisogno proprio della singola persona. E come ogni rito che si rispetti non può mancare una piccola donazione di sangue come suggello del tutto. Il sangue è sempre stato considerato un elemento incredibilmente potente da qualsiasi tipo di cultura, poichè esso è fonte della vita stessa e scorre in noi caldo e veloce pronto a mantenerci in forze.
  • Durande il matrimonio l'acqua simboleggia un ideale più romantico. Il matrimonio veniva generalmente celebrato di notte, nel momento nel quale la luna era ben visibile. Era credenza che ogni giuramento d'amore fatto sotto gli occhi della luna avrebbe avuto un significato più forte quasi divino, e con la benedizione lunare sarebbe arrivata anche l'augurio di una maggiore fertilita. La coppia di sposi si recava così di notte nei boschi che circondavano la città seguiti dai familiari e dal sacerdote che portava con sè una piccola ampollina dell'acqua benedetta del lago, questa veniva fatta scendere tra i seni di lei e il petto di lui, volendo simboleggiare che come l'acqua sacra scorre veloce lavando i peccati dei loro corpi, così l'amore scorerà fluido tra loro senza alcun ostacolo.

LA CITTA:

La città di Ellade è una città fiorente e pacifica, sviluppatasi nel corso di duemilacinquecento anni fino a contare migliaia di abitanti.
Le catene montuose che circondavo il loro territorio, unite ai vari laghi, avevano isolato quasi totalmente la popolazione, che tuttavia non sentiva il bisogno di cercare il contatto con popolazioni esterne, accontentandosi comunque sia di una porzione di territorio molto vasta.
Dopo la costruzione delle mura duemilatrecento anni prima la popolazione era cresciuta così tanto da cominciare ad occupare anche il territorio circostante alle mura, fino ad arrivare alla creazione di piccole comunità a qualche chilometro di distanza.
All'epoca di Faolar si erano venute a creare 27 comunità delle quali 14 completamente autosufficenti. Grandi strade comunque sia, collegavano i vari centri.
Nella città principale erano presenti splendide costruzioni di architettura classica. Il colore che predominava era quello bianco del marmo, elemento che abbondava intorno a loro.
Gli edifici più importanti erano l'anfiteatro nel quale veniva sia eseguite splendide rappresentazioni che processi ai fini della giustizia, la biblioteca che conteneva scritti dei loro antenati, e i meravigliosi templi dedicati ognuno a una delle loro divinità.
Tre volte a settimana si teneva il mercato del paese, nel quale si riunivano i commercianti di ognuna delle comunità pronte a fornire una quantità di cose che altrimenti non ci sarebbero potute essere.
Come forme di pagamento venivano utilizzate sia monete in bronzo raffigurante l'edera come effige, sia il baratto.


IL CONSIGLIO:

A gestire la civiltà di Ellade, come rappresentanti della giustizia era il consiglio, composto dai 25 saggi della città, che a loro volta eleggevano il loro rappresentante supremo.
Ogni domenica tenevano una seduta di processi nell'anfieteatro nel quale risolvevano ogni questione portata davanti a loro dai cittadini stessi.
Ogni centro cittadino al di fuori delle mura di Ellade possedeva un rappresentante eletto popolarmente ed erano questi a porre all'attenzione dei saggi, i problemi che si avevano negli altri centri.
Quella che esisteva infatti era criminalità minore, esistevano si le prigioni, ma per ospitare criminali comuni come ladri, bari, assassini, e di conseguenza vi erano guardie addestrate per tenere sotto controllo quella situazione.
Per questo al momento dell'assedio non vi era una vera e concreta possibilità di respingere un attacco di massa.


ABITI TIPICI:

Gli elladiani non avevano una vera vera e propria moda.
Indossavano tutti indistintamente tuniche bianche lunghe fino alle caviglie con sandali di cuoio.
Quello che cambiava a seconda delle occasioni erano le cuciture con le quali queste tuniche erano intessute.

  • Ricami Oro: erano i ricami utilizzati quotidianamente
  • Blu e Argento: utilizzati durante le feste tradizionali
  • Rosso e oro: venivano vestiti durante il matrimonio, o nel caso delle donne, durante il periodo della gravidanza.
  • Nero: durante le occasioni di lutto.
Un eccezione all'abbigliamento degli uomini era nel caso di queli gia maritati che aggiungevano alla tuniche una fascia al braccio di color marrone intorno al braccio sinistro, mentre le donne sposate erano solite portre i capelli raccolti, abitudine tuttavia che stava scomparendo.

venerdì 15 gennaio 2010

Schiava del Fato - 1° Capitolo


I caldi raggi del sole pomeridiano mi baciavano il volto, mentre inginocchiata con gli occhi chiusi rendevo omaggio alla dea del lago.
Sentii un sorriso sbocciare sulle mie labbra quando i miei sensi - amplificati dalla concentrazione - percepirono il rumore del vento che sinuoso ed elegante si muoveva tra gli alberi agitandone le foglie e portando con se i primi segni dell'autunno.
La grande e calda mano di mio padre si posò sulla mia spalla.
Il cuore comincio a battermi più velocemente e la pace che fino ad allora albergava dentro me, fece spazio a un sentimento di eccitazione e aspettativa che si trasmise al mio sguardo nel momento in cui aprii gli occhi, ritrovandomi a fissare il sorriso ogoglioso di un padre che ama la figlia infinitamente tanto.
E cosi dopo mesi passati in profonda meditazione e in contemplazione di quella natura della quale mi sentivo parte, era giunto il momento tanto atteso.
All'età di diciannove anni ero pronta a lasciare le spoglie della fanciullezza per entrare nell'età adulta, vestita di un nuovo manto e di una nuova consapevolezza che mi avrebbe finalmente resa donna.
Senza dire una parola ci facemmo strada tra la folla inginocchiata e ci avviammo insieme alle altre giovani donne, sul ponte che collegava la riva al centro della polla d'acqua intorno alla quale, tanti millenni prima, aveva preso vita la nostra civiltà.
Mi feci avanti camminando con passo sicuro e il mento fieramente alzato, felice che quel giorno fosse finalmente giunto anche per me.
L'acqua era ciò che di più sacro possedevamo. Rendevamo lei grazie una volta l'anno e nelle sue splendide e limpide acque venivamo consacrati a nuova vita.
Il dolce suono del flauto intessé intorno a noi una fitta e luminosa trama che conferì alla cerimonia un aura quasi divina e primordiale.
Il rito che stavamo per celebrare veniva compiuto nello stesso modo dai nostri avi. Nulla era cambiato poiché se cosi non fosse stato il legame che ci collegava alle nostre origini sarebbe stato spezzato e la magia che ci univa alla madre terra e ai nostri progenitori sarebbe svanita.
Il sacerdote cantò nella lingua antica accompagnato dalle note soavi del flauto che vibravano nell'aria con infinita grazia.
Mio padre, mi si accostò lasciandomi la mano e mormorando le parole dell'antico canto abbassò la tunica dalle mie spalle, accordando i suoi movimenti a quelli degli altri padri in una danza semplice quanto antica. Rimasi nuda lì davanti a lui, non più consapevole degli sguardi degli altri, lasciando che il vento e i capelli mi accarezzassero lievemente il corpo.
Inginocchiandosi vicino alla riva unì le mani a coppa e raccolse nei suoi palmi l'acqua che avrebbe benedetto il mio corpo, purificandolo.
Riversandola sul mio capo, prese poi il pugnale portogli da un accolito alla sua destra e si accinsè così ad applicare un piccola pressione con la punta, lì dove il cuore batteva al ritmo caldo e intenso della vita.

"Coloro che furono possano accompagnare te, che del cuor mio sei parte, nell'impervia vita, donando forza quando la debolezza di te farà suo giuoco e spargendo sole la dovè l'oscurità coprirà i passi tuoi. Quelle genti che già calpestarono il verde di questi prati, ora rivivono.
O' mia bella rosa, a te l'amor non verrà mai meno. Ascolta il padre tuoanche or che tu sei donna."



E finalmente sentii la lama che incideva teneramente la mia pelle, a suggellare un patto tanto antico da non potersi accontentare di niente di meno che del sangue, poiché in esso è contenuta la chiave più potente mai esistita, basando la sua forza su tutto ciò che di primordiale ancora rimane in noi.
Delle gocce cremisi stillarono dalla ferita. Le raccolsi con la punta delle dita e le portai alle labbra lanbendole con la lingua così come la tradizione voleva. Prendedone delle nuove mi diressi verso il centro dello spiazzo dove mi fu consegnata una pergamena.
Inginocchiandomi, aprii la pergamena e iniziai a tracciare con il mio stesso sangue un simbolo sacro: un bastone con due serpenti attorcigliati ad esso.
Arrotolando la pergamena la chiusi con un filo d'edera. Dopo che tutte le altre giovani donne ebbero fatto lo stesso ci recammo intorno alla fiaccola, e in un momento di intenso silenzio bruciammo le pergamene nello stesso istante.
Fu allora che il sacerdote ci raggiunse accompagnato ancora da quella musica cosi melodiosa.
Con un candito telo, asciugo la mia ferita e passo sopra di essa un unguento dal forte odore muschiato.

"Che ora tu sia libera di andare incontro a ciò che ti è stato riservato e che in ciò il fato sia sempre accanto a te propizio"



Una nuova tunica fu fatta scivolare sulle mie braccia alzate; mio padre mi bacio sulla fronte e prendendomi sotto braccio mi guidò verso la mia famiglia che mi aspettava, impaziente di potermi festeggiare.
Mia madre, Clizia, mi sorrise dolcemente, mentre mio fratello Glauco ridendo mi prese in braccio facendomi girare intondo come mi piaceva tanto da bambina.
"Benvenuta fra noi adulti piccoletta" disse stampandomi un sonoro bacio sulla guancia. "Eri bellissima, nessuna eguagliava il tuo splendore" dandogli una piccola strattonata al collo della sua tunica mi agitai per farmi posare a terra "Beh ora puoi anche farmi scendere non trovi?"
Fu allora che mi sentii strattonare leggermente la tunica, guardai in giu, mentre Glauco mi adagiava a terra, e vidi gli splendidi riccioli castani di Iride che mi porgeva un mazzolino di lavanda, dal quale si levava un delizioso profumo."Lavanda per te sorella, te ne ho portata un intero mazzolino cosicchè sarai sicura di trovare presto marito".
Il mio popolo utilizzava la lavanda come simbolo d'amor puro, cosicchè era divenuta presto usanza che tutte le giovani donne pronte ad abbandonare il nubilato se ne dovessero legare un piccolo ramoscello tra i capelli, proprio dietro l'orecchio, per farsi riconoscere e mettere in luce questa ricerca.
Presi delicatamente il mazzolino dalle sue manine di bimba sorridendole "Sei cosi impaziente di liberarti di me, Iride?" la presi un pò in giro. Spalancando i suoi dolci occhi verdi si affretto ad assicurarmi "Ma no sorella, è solo che.."
"..che ho bisogno di molto aiuto per trovare qualcuno" terminai per lei. " Ma no no tu non ne hai bisogno per quello, da qua" si riprese il mazzolino in mano, mettendo un broncio che la rendeva ancor più deliziosa " Lo tengo io allora".
Scoppiammo tutti a ridere. "Sto scherzando ho compreso il tuo gesto e te ne ringrazio ora dammelo, lo conserverò con cura" le carezzai i capelli, mentre lei con una linguaccia mi dava quello che era il mio regalo.
Fu in quest'atmosfera gioiosa che ci accingemmo a raggiungere gli altri cittadini al banchetto tenutosi in onore della festa del lagoe di noi giovani donne.
Avremmo mangiato, ballato e cantato fino a notte fonda, dando vita a uno dei più bei momenti folcloristici delle nostre tradizioni.
L'unico modo per omaggiare veramente la nostra dea protettrice, la dama del lago, era quello di gioire della vita insieme ai nostri cari.
Attendevo quella festa con ansia perché speravo di trovarvi Rolande e di farmi invitare a ballare. Prima di allora non ne avevo mai avuto il coraggio, ma ora che ero finalmente un adulta potevo sperare che mi guardasse con occhi diversi.
Arrivammo al banchetto che la luce del sole ancora splendeva su di noi, e ci mettemmo in fila per arrivare al nostro tavolo.
Una volta giunti, mio fratello sposto cavallerescamente la mia sedia per cedermi il posto d'onore accanto a nostro padre "Non farci l'abitudine sorella cara" disse mentre andava ad occupare quello che abitualmente era il mio posto "questa è una serata speciale e perciò sarò indulgente, ma ricordati che prendi sempre ordini da me" roteando gli occhi con finta frustrazione gli lanciai un sorriso malizioso "Beh spero di non rimanere seduta tutta la notte". Risi nel vedere la sua espressione scioccata, Dio era cosi adorabile mio fratello che ringraziavo il cielo di avermelo donato, tuttavia evitavo di fare certe manifestazioni affettuose perché a ventun anni non credo che Glauco amasse sentire me che lo definivo "adorabile" anche perché tra qualche tempo si sarebbe probabilmente sposato, sempre che Velesia accettasse la sua proposta ovviamente.
Guardai intorno a me per vedere se scorgevo l'immagine di Rolande in giro, di certo i suoi capelli neri si sarebbero notati a distanza, essendo inoltre, discretamente alto.
Non feci in tempo a terminare la mai occhiata perlustrativa che avvertii una piccola vibrazione sotto i piedi. Tesi i sensi al massimo, ma era come se non fosse successo nulla. Ero proprio una sciocca, nemmeno avevano cominciato a servire le bevande e io gia avevo i sensi alterati.
Mi girai verso mio padre, sorridendogli in quel modo che sapevo incantarlo " Padre sarei liete se mi riservaste la prima danza, quando i musicisti cominceranno a suonare" lui ridacchio compiaciuto "Beh se ti accontenti di danzare con un povero vecchio allora..."

TU TUM

Il silenzio calò improvvisamente sulla piazza. Questa volta non me l'ero immaginata la vibrazione, erano tamaburi, che in quel preciso momento cominciarono a tuonare minacciosi.

TA TUM TUM TUM TA TUM


Erano tamburi di guerra, qualcuno si stava avvicinando, e anche in fretta.
Un giovane guardiano di vedetta quella sera al cancello corse come se avesse il demonio stesso alle calcagna.
Al suo passaggio la gente si spostava automaticamente per fargli spazio e fu così che attraversando un tunnel umano giunse a recare una notizia al capo del consiglio che doveva essere se non infausta, di certo di grande importanza.
Il saggio ascoltò con attenzione quello che gli veniva sussurrato e nulla poteva essere letto dalla sua espressione che rimase sempre impassibile.
Il capo del consiglio si alzò così in piedi e con voce calma e potente nonostante l'età, tuonò
"State calmi!" fece una pausa per permettere a tutti di dedicare l'attenzione a lui. Un bambino cominciò a piangere mentre la madre nervosamente se lo portò al petto.
Ci voltammo tutti verso il Saggio con gli occhi spalancati, mio padre mi cinse le spalle mentre mia madre prese in braccio Iride che da brava bambina coraggiosa non emise un sol suono. Glauco invece si rivolse a mio padre nervoso ma con tono fermo "Padre col vostro consenso io.." " Si certo vai da Velesia".
Velocemente vidi mio fratello maggiore allontanarsi dal nostro tavolo mosso da un bisogno più grande di quello di proteggere la sua famiglia; era davvero innamorato della sua bella.
Il rullo di tamburi cominciava a farsi leggermente più vicino e sempre più costante, suonato da mani abili ed esperte, evidentemente abituate a questo tipo di incarichi.
"Che qualcuno chiuda i cancelli della città" i due giovani guardiani di turno si affrettarono a chiudere i cancelli, aiutati da dei volontari lì vicino per poter fare più in fretta.
"Bene signori, credo che tutti quanti conosciamo il significato di questi tamburi, perché questi sono tamburi di guerra." Dalla folla cominciò a serpeggiare un gran vociare fino a che qualcuno urlò "Stanno venendo ad invaderci!", "invaderci?" risposero in coro alcune voci.
Il panico si sprigiono in un solo istante, mi sentii spingere da dietro da tutte le persone che dietro di me cercavano di uscire dalla massa per dare libero sfogo alla loro paura.
"Silenzio!" tuonò la voce del saggio così potente da sovrastare il caos che si era venuto a creare.
"Hedemus,Themipatros,Lycs" chiamò il saggio "Abbiamo la possibilità di affrontare un assedio?"
nel silenzio si alzo la voce di Themipatros "No, saggio. Sono mille anni che non ci pervengono notizie di popoli circostanti, non abbiamo truppe, solo giovani guardiani che non possono affrontare un combattimento." l'atmosfera di fece ancora più carica di tensione e sentii mio padre stringermi leggermente la spalla, tentando di rassicurarmi.
La posizione della nostra città non era stata scelta in maniera tattica, tuttavia il caso volle che fu erta in una valle circondata dalla congiunzione di due piccole catene montuose e una vasta e splendida area boscosa, che trovava pausa tra un lago e l'altro.
In questa maniera eravamo rimasti perlo più isolati e ci eravamo quindi sviluppati come un popolo amante delle belle arti più che della guerra, come le nostre meravigliose piazze decorate con splendide statue potevano testimoniare; mio padre stesso era uno scultore.
L'ultima accademia militare fu chiusa circa 900 anni prima dato che di crescere guerrieri non ve ne era bisogno alcuno, prosperando alla nostra maniera ed espandendoci fino ad arrivare alla creazione di piccole comunità al di fuori della grande città.
"Cosa ci proponete allora" disse il saggio. Le sopraciglie aggrottate mentre con la mano sinistra reggeva il bastone e con la destra si accarezzava nervosamente la bianca barba.
"Fuggire signore".
Il suono di potenti cornamusa si erse forte dalla foresta, il marciare degli uomini era diventato percettibile.
Bambini intorno a me iniziarono a piangere. Le donne si stringevano ai loro uomini che cercavano di dimostrarsi coraggiosi.
"L'unica via di fuga oltre al cancello principale della parte nord è il sotterraneo sotto la cinta delle mura est" fece Hedemus " ma è possibile solo far passare tre persone alla volta, non ce la faremo mai a far passare tutti".
Allora fu il caos e vani furono i tentativi del consiglio di riportare un minimo di ordine.
Non avevamo mai conosciuto la realtà dell'assedio, solo leggende trasformate in racconti potevano darci una vaga idea di quello che ci aspettava, ma realisticamente parlando, non avevamo scampo.
Guardai mio padre negli occhi, e non vi scorsi ne paura ne timore.
"Padre è la fine?" lui mi afferrò il polso e cominciò a trascinarmi con forza e insistenza fuori da quella folla di migliaia di persone che avevano perso ogni parvenza di civiltà.
Mia madre ci venne vicina insieme a Iride "State tranquille bimbe mie ce la caveremo in un modo o nell'altro" ma dal tono della sua voce compresi che anche lei aveva paura. Tuttavia riponeva in mio padre una fiducia cieca e lo avrebbe seguito ovunque.
Avanzammo lentamente tra la folla, marciando nella direzione opposta alla calca. D'un tratto compresi quella che era l'intenzione di mio padre: farci uscire dal cancello principale.
Tentai così di farmi sentire sopra la confusione "Padre, padre" urlai più volte il suo nome e senza fermarsi si voltò a guardarmi " Padre non possiamo uscire dalla porta principale stanno per arrivare" e come per darmi ragione i suoni di tamburi e cornamuse si fecero via via sempre più forti. " si che possiamo, stanno andando tutti nell'uscita est, non ce la faranno mai a passare di li, l'unica nostra possibilità è tentare l'uscita principale".
Continuammo cosi a spingere, mentre freneticamente chiamavamo Glauco.
Tutto ad un tratto mi sentì travolgere dal peso di un uomo che mi cadde malamente addosso.
"Padre" urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, ma con mio orrore vidi che lui e mia madre erano stai spinti via dalla folla "Faolar" mia madre tra le lacrime chiamò il mio nome a gran voce, mentre mio padre cercava invano di tornare indietro a prendermi.
Li vidi spinti via, li vidi fino all'ultimo che lottavano per non abbandonarmi, e li vidi perdere quella battaglia.
Una donna mi calpesto una caviglia nel tentativo di fuggire, e urlai dal dolore.
Sentii all'improvviso una mano che mi prese per i capelli e mi aiutò a rialzarmi. "Glauco" gettai le braccia al collo di mio fratello che mi prese in braccio " andiamocene subito via di qui Faolar" mi strinsi a lui chiudendo gli occhi.
Lo sentii ansimare e grugnire mentre con spallate potenti si faceva spazio tra il fiume di persone. Dopo quella che sembro un eternità raggiungemmo finalmente il limitare della piazza.
Costeggiando il lago sacro e schivando le persone che correndo rischiavano di travolgerci. "Glauco, dov'è Velesia?" chiesi a mio fratello che mi rispose senza guardarmi "è con i genitori al sicuro". Non gli feci altre domande, continuai invece a guardare dritto a me cercando di ignorare la paura e le fitte che dalla caviglia si diffondevano attraverso tutta la gamba pulsando in maniera dolorosa, probabilmente dovevo essermela rotta.
Uno schianto eccheggio nel fragore che ci circondava e come un orda demoniaca, l'esercito invasore si riverso all'interno delle nostre mure, lasciando dietro di loro una scia di fiamme e morte che poteva essere respirata.
Da allora accadde tutto a rallentatore intorno a me, come se avessi eliminato ogni suono ed escluso le voci urlanti di tutte quelle persone che fino a poche ore prima si accingevano a festeggiare.
Grandi lance e torce infuocate si innalzavano dalla massa, mente spade si abbattevano su persone inermi, senza fare alcuna distinzione. Chi si trovava sulla loro traiettoria veniva infilzato, e squartato, fossero questi uomini, donne o bambini.
Urla, urla ovunque, fiumi di sangue iniziarono a scorrere nelle strade come se fosse acqua piovana.
La nostra bella città, la nostra splendida civiltà stava per essere cancellata.
Sentii Glauco ansimare, e posandomi a terra mi abbracciò strettamente "Ti voglio bene sorella" si stacco da me fissandomi negli occhi facendo scorrere una mano tra i miei capelli.
Dietro di lui vidi arrivare un guerriero dalla lunga barba e i capelli lunghi, brandendo una lancia. Lo vidi portare indietro il possente braccio e senza che avessi nemmeno il tempo di gridare, vidi gli occhi di mio fratello spalancarsi. Un rivolo di sangue prese a colargli verso il mento.
Con un ultimo suono gutturale - un suono che non potrò mai dimenticare - Glauco si accascio a terra e prima che l' ultimo scintillo di vita lo abbandonasse mi copri usando se stesso. Senti la sua vita sfuggirmi dalle mani e non potei che guardare il suo corpo immobile, rimanendo schiacchiata lì al suolo disperata e lacerata.
Persi contatto con la realtà ingoiata immediatamente dal dolore mentre il sangue di mio fratello colava ad imbrattarmi la tunica.
A riportarmi alla coscenza fu una mano che, spostando malamente il corpo di mio fratello da sopra di me mi tirò in piedi per i capelli.
Guardando in faccia il guerriero provai un odio sviscerato per quei barbari che mi avevano gettato in un incubo.
Gli sputai in faccia "Carogna, non sei altro che una bestia immonda" gli vomitai addosso con odio.
Un manrovescio arrivo a colpirmi potente sul volto. Immediatamente sentii il sapore metallico del sangue in bocca.
Non provai dolore, fu come se mi fossi di colpo insesibilizzata. Non avrei mai piegato la testa di fronte ad un essere del genere, avrei affrontato la morte non da persona pavida, ma vera donna.
I secondi passavano e io ero ancora in vita, quasi impaziente mi ritrovai a pensare anzi, a desiderare che la facesse finita presto, ma contrariamente alle mie aspettative il barbaro davanti a me tirò fuori una corda fatta di materiale rozzo, e mi lego i polsi dietro la schiena cosi stretti da non sentire più il sangue circolarmi attraverso le dita, mi fu legata anche una corda intorno al collo, e costretta a camminare in mezzo alla devastazione, non potei fare a meno di vedere i corpi di centinaia di persone giacere scompostamente sul terreno prive di vita. Continuando a camminare scorsi anche persone che conoscevo e appena chiudevo gli occhi per cercare di lasciare fuori quelle immagini dalla mia mente, sentivo una grossa mano che spintonandomi in avanti mi urlava di camminare.
La caviglia si era gonfiata ma non me importava nulla, e cosi tra uno spintone e l'altro raggiunsi il centro della piazza vicino alla polla d'acqua sacra.
Fu con orrore che la vidi piena di sangue; Il sacro lago contaminato con del sangue, non ci potevo credere, millenni di ossequiosa cura e venerazione erano stati cancellati con un colpo di spugna.
Mi girai rabiosa verso il primo guerriero che si trovava alla mia destra, ma non feci nemmeno in tempo a girare il viso che subito un pugno mi colpì tramortendomi immediatamente.
Rinvenni, e provai un vago senso di nausea quando cautamente mi rialzai a sedere. Le prime luci dell'alba cominciavano a rivelarsie il sole maestoso si erse potente ad illuminare la carneficina occultata dalle luci delle stelle.
Altre persone erano nelle mie stesse condizioni,tutti con lo sguardo fisso nel vuoto, stremati da un evento che non ci aveva permesso nemmeno di lottare.
In una notte ci era stato strappato tutto: dignità, affetti e persino un identità nella quale rispecchiarci.
Non so quanto tempo passò prima che ci disponessero in fila e cominciare a marciare.
So soltando che tra quell'unica manciata di persone rimaste non c'era nessuno dei miei cari.
Perché mi salvai? non so dirlo, ne so dire da chi presi la forza di andare avanti, so solo che tra spinte, lacrime e dolori vari, riuscivo sempre a mettere un piedre davanti all'altro.
Camminammo per quelli che mi sembrarono chilometri una volta usciti dalle mura della città, e quando il sole brillò alto nel cielo arivammo a un grosso gruppo di rozzi carri di legno, pronti ad apsettarci.
Completamente stremata, fui quasi grata di quella mano rude che mi strattono per quello che era rimasto della mia tunica e mi getto in malo modo nel carro.
Rimasi immobile per quasi tutto il tragitto, cercando di trovare la forza di turarmi le orecchie ed estromettere quella serie di gemiti flebili ma costanti.
Durante il lungo tragitto nel quale eravamo stati trascinati, fummo fatti vermare tre volte e in ognuna di queste occasioni degli avanzi di cibo furono gettati in malo modo in ogni carro.
In alcune persone l'istinto di sopravvivenza era cosi forte da spingerli a gettarsi su quelle poche cose come se fossero bestie affamate, ignorando il cattivo odore e il cattivo sapore. Altri invece rimasero immobili, cotinuando a fissare il vuoto, ignorando ogni cosa tentasse di trascinarli fuori dall' isolamento che gli impediva di provare una qualsiasi emozione.
Inizialmente divorai ciò che trovai, poi persi interesse per quel cibo. Ciò che non ci fu data fu l'acqua, ed era proprio questa che io bramavo con tutta me stessa.
Mi lascia cadere sul pavimento del carro, con lo sguardo rivolto verso il cielo, le labbra screpolate e la gola riarsa.
Desiderai di poter volare via, insieme a quelle nuvole, abbandonare il mio corpo, dimenticare ogni cosa, ogni dolore, ogni ossesione, scappare via di nuovo libera dalle catene che mi inprigionavano.
Fu allora che una piccola goccia d'acqua mi colpi il viso. Tesi i miei sensi al massimo delle mie possibilità, e quando ne sentii un altra chiusi gli occhi.
Lasciai che quella leggera pioggia lavasse il mio corpo aprendo la bocca e lasciando che si riempisse per poter bere.
L'acqua, la nostra preziosa e benedetta acqua era venuta per darci speranza, per farci capire che non era ancora tutto finito.
Non credevo davvero che per noi ci fosse salvezza, ma per qualche istane era stato bello farsi pervadere da una sensazione liberatoria.
Non so quantò durò il viaggio, sò soltanto che ad ogni fermata i corpi di chi non ce l'aveva fatta venivano scaraventati a terra da quei guerrieri senz'anima, lasciati senza sepoltura ne benedizione.
E proprio quando pensavo di aver raggiunto il fondo, entrammo nella città dei nostri invasori.
Superammo un grande ponte in legno, e dopo pochi minuti si cominciarono ad intravedere le prime abitazioni.
La voce possente del conduttore del mio carro ghigno diabolicamente "Benvenuti a casa, schiavi"