Writing dreaming hoping

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Schiava del fato

lunedì 18 gennaio 2010

Schiava del fato - 2° capitolo


Dopo che ci ebbero legati gli uni agli altri, le guardie ci fecero scendere malamente dai carri e fatti camminare in una strada affolata, mostrati con orgoglio agli occhi della popolazione, giunta ad accoglierci tra insulti e risate di scherno.
Procedevamo lentamente essendo stanchi, affamati e sopratutto impauriti.
Cercai di mantenere sempre un buon passo per evitare di attirare su di me le ire dei soldati che ci accompagnavano. Quella gente non esitava ad usare la violenza ed io per il momento non avevo bisogno di ulteriori maltrattamenti.
Il fetore che aleggiava intorno a noi era molto intenso e in gran parte proveniva da noi stessi. Abbassai lo sguardo per osservare quel che rimaneva della mia tunica battesimale: Era sporca di fango e del sangue di mio fratello oramai incrostato sul tessuto.
Pensare a Glauco e alla mia famiglia era un dolore intollerabile, Dio quanto mi mancavano, se solo avessi potuto piangere la loro morte sfogando tutto il dolore che mi portavo nel petto, forse ora controllare le mie emozioni sarebbe stato più semplice, ma purtroppo non toccava a me decidere, ora la mia vita era nelle mani di questi esseri demoniaci, che non conoscevano ne grazia ne misericordia.
Grande era lo schiamazzo della folla corsa ad osservarci, e più rimanevamo impassibili, più le provocazioni nei nostri confronti aumentavano.
Un bambino che non doveva avere più di otto anni, si chinò a raccogliere una manciata di fango dal terreno e lo getto addosso ad un uomo che si trovava poco piu avanti a me nella fila.
Questi fece finta di niente, alzo solo le mani che erano legate tra loro per pulirsi il viso continuando a camminare e tenendo lo sguardo fisso davanti a sè.
Cercando di non farmi notare scrutai furtivamente intorno a me: Spogli edifici in pietra scura costeggiavano la strada, mentre in lontananza si poteva scorgere un grande forte che, imponente, dominava la città.
Tutto sembrava privo di colore, eppure dovevo ammettere che c'era qualcosa di selvaggio in tutto ciò, un qualcosa che affascinava.
Le persone che abitavano quel luogo erano molto diverse da quelle che ero abituata ad osservare ogni giorno.
Erano più alti, gli uomini imponenti e privi di ogni traccia di delicatezza, i volti pallidi e gli occhi chiari dallo sguardo duro, tipico di chi vive ogni giorno in una realtà dura contornata da poche gioie. Ma sopratutto Ognuno di loro possedeva un indomita massa di capelli lunghi e selvaggi.
In quel momento inciampai su un sasso che sporgeva dal terreno. Sentii la caviglia torcersi e immediatamente un dolore pulsante crescere fino a strattapparmi un piccolo gemito. Stringendo i denti tornai a posare il peso sul piede nel compiere un altro passo. Non mi sarei di certo fermata per una piccola storta, avrei ignorato il dolore andando avanti come qualsiasi altra persona avrebbe fatto nelle mie condizioni.
"Forza, più veloci feccia umana" una frusta schiocco a terra vicino ai miei piedi. Posai lo sguardo alla mia sinistra di colpo intimorita da quel rumore. Cercai di velocizzare il passo nel tentativo di non destare l'ira dell'uomo vicino a me, ma i miei tentativi goffi non fecero altro che attirare la sua attenzione.
Come a ribadire la sua superiorità agitò la frusta in maniera minacciosa "Cosa guardi cagna, cammina piuttosto".
Mi morsi il labro inferiore per impedire a me stessa di protestare.
Cercai così di accellare il passo, ma il mio piede gia dolorante protesto vivamente quando lo sovraccaricai scelleratamente del mio peso, e finii così per inciampare e cadere fuori dalla fila. Annaspai inpaurita cercando di rimettermi in piedi, poi chiusi gli occhi preparandomi gia a ricevere un colpo. Con mia vergogna iniziai a tremare, piena di paura per il trattamento che avrei ricevuto, ma inaspettatamente invece di sentire una sferzata, sentii delle mani che stringendomi saldamente per le spalle, mi aiutavano ad alzarmi.
Una volta in piedi aprii gli occhi ritrovandomi a fissare un uomo dallo sguardo di un blu intenso nel quale trovai qualcosa che non mi sarei mai aspettata di ricevere: Gentilezza.
Dovevo essere rimasta imbambolata a fissarlo perché lo sconosciuto mi diete una piccola, ma gentile spinta "Vai".
Ricominciai a camminare voltando la testa per cercare di guardarlo ancora, ma poi lo persi di vista. Non avrei mai dimenticato quell'unico gesto umano che per la prima volta da giorni mi fu rivolto.

Tra strattoni, comandi ed insulti arrivammo finalmente al forte.
Degli uomini a cavallo ci stavano aspettando di fronte al grande cancello.
Indossavano delle splendite armature che gli conferivano un aria signorile, di certo doveva trattarsi di persone dalla levatura superiore rispetto a quell iche ci avevano catturato.
Uno di questi soldati si fece avanti rivolgendosi al capo del nostro gruppo
"A quanto vedo la missione è stata un successo" la voce era profonda e pesantemente accentata "Quanti ne avete portati indietro?"
"Inizialmente erano in settantotto, poi durante il viaggio ne abbiamo persi alcuni"
" E ora quanti ne sono rimasti dunque?"
" Quarantasette" Il modo leggermente scattoso nel quale si muoveva attirò la mia attenzione
"Avete trovato resistenza?" lo sguardo dell'uomo era duro come l'acciaio e non mostrava traccia di approvazione.
"No mio signore, ma la popolazione era più numerosa del previsto, e per avere la sicurezza della facile vittoria non potevamo permetterci di fare troppi prigionieri, non volevamo rischiare una rivolta durante il tragitto del ritorno"
"Capisco. Sappi tuttavia, che non sono molto soddisfatto, ma per questa volta sarò clemente con te e con i tuoi compagni".
Girando il cavallo si diresse nuovamente verso gli altri uomini a cavallo che lo attendevano alle sue spalle.
Avvertii la tesione sciogliersi nei soldati accanto a noi, come se avessero tirato simultaneamente un sospiro di solievo... peccato, sarebbe stato bello vedere il loro sangue che macchiava il terreno.
Mi ritrovai a fissare gli uomini a cavallo insistentemente, ma subito distolsi lo sguardo. Sbirciai discretamente intorno a me, ma a quanto pare nessuno mi aveva notata.
Gli uomini a cavallo si girarono a guardarci prima di spronare le loro cavalcature e andarsene, mentre quello che doveva essere il loro capo si fermò un momento accanto ai guerrieri in testa al gruppo
"Solito trattamento per i prigionieri ma questa volta divideteli in tre gruppi"
"Certo signore" rispose il capogruppo, mentre poggiava un ginocchio a terra abbassando la testa in segno di rispetto.
Alzandosi in piedi si giro verso di noi e ricominciò a tuonare ad alta voce "Forza luride bestie muovetevi priama che vi faccia passare io la voglia di stare fermi ad oziare"
Come se fossimo un sol uomo riprendemmo a muoverci. Una volta passato il primo cancello ci ritrovammo a percorrere un corridoio in marmo per sfociare poi nella grande piazza all'interno del forte.
Fummo acconti dal clangore di diverse spade che cozzavano abilmente tra loro. Individuai così il gruppo di soldati alla nostra destra che con movimenti ipnotici volteggiavano su loro stessi in una danzata fatta di parate e stoccate. Mi stupii di vedere quanto quei guerrieri erano aggraziati nonostante la loro stazza. Di certo erano combattenti formidabili.
Solo in seguito notai le cateneaffisse sulla parete dell'edificio principale che si trovava proprio di fronte all'entrata.
Non potevo fare a meno di chiedermi che cosa ne avrebbero fatto di noi. Di certo il loro scopo non era quello ucciderci. Non subito almeno, altrimenti quale sarebbe stata la ragione di mantenerci in vita fino ad allora?
Dovevamo servigli a qualche cosa di certo, ma era dannatamente difficile cercare di comprendere quel popolo cosi diverso da noi.
Per loro niente sembrava avere realmente importanza se non la forza bruta, eppure si arrogavano il diritto di vita e di morte, quel diritto che spettava solo agli dei.
Mentre ci trascinavano all'interno del corpo principale dell'edificio, vidi i soldati che prima stavano combattendo, interormpere le loro attività per guardare nella nostra direzione con sorrisi apparentemente soddisfatti.
Mi chiesi se anche loro si sarebbero uniti a quella schiera di persone pronte solo a farci del male.
Entrati nell'edificio, fummo condotti a una rampa di scale. Iniziammo cosi la discesa nei nostri peggiori incubi.

Una grande porta di ferro cigolò in maniera sinistra e il guardiano che l'aveva aperta si spostò di lato per farci passare. Uno ad uno fummo spinti aldilà della soglia.
Il buio aleggiava pesantemente nello stanzone, ed era così fitto che non fui in grado di distinguere nemmeno i contorni delle cose. Non c'erano finistre lì, lo si poteva percepire anche dall'aria ferma e immobile che odorava di morte.
La porta fu chiusa dietro di noi, isolandoci in una dimensione priva di tutto quello che avevamo amato: Luce, aria, sole, acqua.
Cercai a tentoni una parete e la trovai dopo essere andata a sbattere contro tre persone. Una volta arrivata alla meta mi lascia cadere a terra poggiandovi la schiena.
Mi portai le ginocchia al petto e vi nacosi il volto.
Ogni movimento, ogni bisbiglio o gemito era amplicato dentro quella cella buia. Tirai dei respiri profondi ignorando il tanfo che c'era lì dentro. Cercai di escludere il mondo, anche se ora il mio mondo era quella realtà così dolorosa.
Respirai cercando di calmarmi, ma più respiravo più sentivo il mio petto che cominciava ad essere scosso da singhiozzi silenziosi.
Una piccola mano si posò sulle mie ginocchia, alzai di scatto la testa spalancando gli occhi. Un bambino di non più di 10 anni si avvicinò a me, e mi guardò a lungo.
Che pena mi fece vedere quanta tristezza vi era li dentro;
Fu allora che mi lasciai andare. Non ce la fecevo più a trattenere le lacrime;
Gettando fuori un sospiro tremulo, piansi abbracciando convulsamente il bambino che aveva liberato quelle lacrime che fino ad allora erano rimaste dentro di me a bruciarmi la gola.
Strinsi a me quel bambino immaginando di abbracciare tutte le persone che mi erano state strappate; abbracciai quel bambino per ritrovare il calore umano fino ad allora dimenticato, abbracciai quel bambino per ricordare a me stessa che essere umani significava anche amare e soffrire, e abbracciai quel bambino per dare a lui quel conforto che solo il contatto con una persona vicina può dare.
Detti libero sfogo così non solo al mio dolore, ma anche a quello di tutti i presenti che per la prima volta si strinserò gli uni contro gli altri, non facendo domande ne chiedendo risposte, ma solo per provare a se stessi che non era ancora finita.
"Non ha senso, tutto questo non ha senso." una donna dai lunghi capelli si passo una mano tra la sua chioma oramai incrostata di sporcizia. "Niente ha senso. Non ci uccidono, ma ci gettano qui dentro ad aspettare. Aspettare cosa?" una traccia di isterismo si diffuse nella voce prima debole.
Si alzò in piedi di scatto cominciando a camminare avanti e indietro. Più che vederla, sentivo il rumore della suola delle sue scarpe sul pavimento di pietra.
Tutto era avvolto in un alone di oscurità, solo una sottile luce proveniente dalla porta ci ridava parzialmente l'uso della vista.
"Si che vi è un senso in tutto questo, e lo scopriremo presto" la voce roca di un uomo mi raggiunse dall'angolo opposto della cella. Era stanca, e priva di forza. " C'è un motivo per il quale non ci hanno ancora ucciso e credo..."
Ba Ba BAM. Dei colpi furono martellati sulla porta seguiti da una voce maschile decisamente alterata.
" Ei lì dentro fate silenzio, e non costringetemi ad entrare se non volete ricevere un trattamento che vi farà pentire di essere nati"
Una scarica di terrore si diffuse tra tutti i prigionieri. Mi rannicchiai sempre di più su me stessa tenendo vicino a me quel dolce bambino che mi si era avvicinato prima.
Fu quando il silenzio fu ristabilito da molto tempo che osai avvicinare la mia bocca all'orecchio del bambino e bisbigliare piano "Qual'è il tuo nome?"
Imitando a sua volta i miei movimenti, sentii le piccole labbra del bambino posarsi sul mio orecchio "Zefiro" fece una pausa "e il tuo?"
"Faolar, mi chiamo Faolar" poggiai la guancia sulla sua testa e sentii le sue braccia cingersi attorno alla mia vita.
"Sai io ti vidi, durante il battesimo, eri molto bella." Nascose timidamente il viso nell'incavo della mia spalla.
Il ricordo di quel giorno, oramai così lontano dalla mia vita attuale mi provocò un altra piccola stillettata al cuore "Grazie" le labbra mi tremarono e sospirando mi lasciai scivolare in un sonno privo di sogni.

Aprii gli occhi, sbattei le palpebre piu volte ma non riuscii a focalizzare nulla. Notai che la luce fievole che filtrava da sotto la porta era stata spenta.
Sentire il piccolo petto di Zefiro premuto contro il mio fianco alzarsi e abbassarsi regolarmente mi fece svegliare del tutto.
Piccoli singhiozzi trattenuti rompevano il silenzio glaciale che si era venuto a creare all'interno della cella.
Mi alzai cercando di non svegliare Zefiro, quelli del sonno erano gli unici momenti nella quale poteva evadere dalla realtà e non volevo riportarlo immediatamento nel nostro limbo personale. Ma io dovevo fare pipì.
Non essendoci un bagno, raggiunsi un angolo a tentoni, e dopo aver controllato che fosse vuoto - agitando un braccio fendendo l'aria vicino a me - mi chinai e alzai i cenci sporchi che componevano la mia veste.
Mi vergognavo, mai in vita mia mi ero ridotta a fare una cosa del genere, e anche se era niente in confronto a quando avevo passato, perdere anche l'ultimo briciolo di civiltà mi fece salire le lacrime agli occhi.
L'odore che impregnava nell'aria mi fece capire che non ero l'unica ad aver avuto questo stimolo.
Del resto eravamo in molti la dentro, e c'erano tutte le premesse che vi rimanessimo a lungo.
Quella cella sarebbe presto diventata una latrina, se fossimo andati avanti di quel passo.
Tornai al mio posto, e quando mi sedetti, trovai Zefiro che mi aspettava sveglio anche se insonnolito.
Gli accarezzai i capelli "Sei un bambino corsaggioso" gli sussurrai
"Non ho paura del buio, è degli uomini che ho paura." fece una piccola pausa "mi sento stanco Faolar, tanto stanco."
"Chiudi gli occhi allora e immagina i verdi prati che costeggiano la nostra bella città, immagina di essere lì a correre e a guardare il sole e dormi sognando questo."
Lo senti annuire e stendersi accando a me poggiando la testa sulle mie ginocchia.
Cercai di fare anche io lo stesso, ma immagini di fiamme presero il posto dei boschi nella mia mente e gli occhi spalancati di mio fratello mentre mi fissava un attimo prima di morire mi fecero aprire i miei mentre ricominciavo a piangere cercancado così di far uscire tutto il dolore che stavo accumulando dentro me, fallendo miseramente.
Sembrava che non ci fosse mai fine alle lacrime, e quando finalmente non ne ebbi più da far uscire fuori rimasi per quelle sembravano ore a fissare il buio di fronte a me con gli occhi, che bruciando, mi ricordavano che non era ancora finita.

Non so dire quanti giorni passammo dentro quella cella.
Il tempo era scandito dall'avvicinarsi dei soldati che venivano annunciati dal suono pesante dei loro passi.
Aprivano la porta e quando questa veniva spalancata una lieve luce ci mostrava per un attimo quello nel quale ci stavamo trasformando: derelitti.
Quelle oscure figure gettavano dentro del cibo e portavano dell'acqua dal cattivo sapore.
Mi gettavo su quegli avanzi con foga nel tentativo di prenderne non soltanto per me ma anche per Zefiro, verso il quale stavo sviluppando un grande attaccamento: Eravamo la forza l'uno dell'altra.
Più il tempo passava più il fetore dentro quella grande cella aumentava, e più il fetore aumentava più lo notavo meno. Oramai mi ero abituata al buio, all'inerzia e al cattivo odore. L'unica cosa della quale non mi abituavo era lo stato di costante terrore nel quale non solo io, ma tutti vivevamo.
Fu dopo molto tempo che la porta della nostra prigione si aprii per far entrare dentro molti uomini.
"Voi, forza alzatevi" l'uomo che ci aveva portato da mangiare fino ad allora indicò con voce perentoria un gruppetto di persone che si trovavano nella parete opposta alla mia.
"Sbrigatevi ho detto, se non volete che usi al frusta" facendo segno agli uomini che lo accompagnavano, aspettò che questi aiutassero i prigionieri ad alzarsi.
"Legateli immediatamente"
"Si signore" risposero in un corso scordinato gli uomini.
Ci avvicinammo l'uno a l'altro e strinsi Zefiro a me. Dove stavano portando quelle persone?
Tremando cercai di spostarmi più lontano possibile da loro.
Un mormorio impaurito si diffuse in tutta la cella.
"Silenzio!" L'uomo che dava gli ordine fece schioccare con forza la frusta sul pavimento.
"Dannazione quanto ci vuole per legare degli inutili straccioni?" Gli uomini si sbrigarono a terminare il lavoro e spingendo i prigionieri fuori dalla cella potei contarli.
Ne stavano portando via quindici.
Una volta chiusa la porta mi sentii sollevata, non era ancora il mio turno.
Ovviamente gli schiavi prelevati dalla nostra prigione non tornarono mai più indietro.
Durante quelle interminabili giornate d'agonia mi chiesi se li avessero uccisi, e se quella era la sorte che sarebbe toccata anche a noi altri.
Più il tempo passava e più tutte le mie paure prendevano il dominio sulla ragione.
Non riuscivo a dormire, non riuscivo a pensare, a malapena ero in grado di mangiare. Fissavo il vuoto di fronte a me incessantemente, non mi davo mai pace, e quando Zefiro dormiva gli incubi mi raggiungevano anche se facevo di tutto per scacciarli.
Non potevo più continuare in quella maniera me ne rendevo conto persino io.
Poi ritornarono. Le porte si spalancarono facendo entrare le stesse persone che avevano portato via i nostri compagni.
Tutto si svolse nello stesso modo, solo che insieme a loro portarono via anche Zefiro.
Prima che me lo strappassero via lo strinsi a me convulsamente, e quando le guardie lo fecero alzare malamente per legargli le mani, lo trattenni urlando con tutto il fiato che avevo in gola
"No lasciatelo qui con me vi prego"
"Faolar" Le sue lacrime mi strazziarono il cuore che era gia sanguinante.
"No" ripetei con terrore "No vi prego no" piangendo accettai la mia punizione giunta per le mani del soldato che aveva legato Zefiro.
Lo guardai uscire dalla cella sapendo che non sarebbe più tornato.
Quanto dolore avrei dovuto ancora sopportare? sarebbe mai stato abbastanza?
Una volta che il buio torno ad inghiottirmi mi lasciai cadere a terra, e cosi rimasi per giorni, alzandomi solo per andare a mangiare.
Era incredibile, nonostante tutto quello che stavo passando, e il dolore che mi spaccava in due parti il cuore, sentivo la forza della vita che scorreva indomita nel mio sangue, contro tutte le aspettative.
Era un agire meccanico dettato dall'istinto più che dalla ragione. Ogni volta mi alzavo a sedere e strisciando arrivavo al centro dove con dita tremanti raccoglievo ciò che mi bastava e bevevo quanto piu potevo. Una volta fatto tornavo indietro verso la mia nicchia, verso il mio oblio.
Giorno dopo giorno, questa era l'unica cosa che scandiva quella specie di esistenza che mi trovavo a vivere.
Ma come per le persone prima di me, arrivò anche il mio turno e vennero a prendere anche me.

3 commenti:

  1. Ciao, ultimamente sono stata presa dal lavoro, ma domani torno a leggere con calma e a commentare! :))

    FairyRain
    http://standingintherainbow.splinder.com/

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  2. Oh ma sa signorina, che scrive davvero bene? Ed è anche molto carina! " un ammiratore proveniente da brescia"!

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